Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2014 alle ore 08:15.

My24

A dispetto della pluralità dei linguaggi che si è imposta in questi anni, il programma di «Primavera dei Teatri» – la vivace rassegna di Castrovillari, che apre la stagione dei festival – è stato caratterizzato soprattutto dalla scrittura nelle sue varie forme, con alti e bassi che ben riflettono il momento di incertezza della scena contemporanea.
La parte del leone l'ha fatta, com'era prevedibile, la compagnia di Punta Corsara – fenomeno unico nel teatro italiano, passato in pochi anni dai primi passi nei corsi di Scampia a un trascinante professionismo – col magnifico Hamlet travestie, versione compiuta di uno «studio» presentato tempo fa al Teatro Franco Parenti: intrecciando Shakespeare con Petito, ne ha ricavato un'acre farsa nera in cui la vicenda di Amleto viene buffamente inscenata dai parenti per guarire un ragazzo napoletano che si crede il principe di Danimarca.
L'incalzante regia di Emanuele Valenti tratteggia una serie di grottesche figurette vividamente stagliate contro il vuoto del fondale scuro. Fra gag irresistibili e sentori di camorra, alla fine un delitto ci scappa sul serio.
Un fenomeno a sé sono anche i Quotidiana.com, ovvero i bravissimi Paola Vannoni e Roberto Scappin, coi loro surreali dialoghi pseudo-filosofici, coi loro stralunati interrogativi esistenziali, domande astruse che ricevono risposte paradossalmente acute, domande acute che ricevono risposte astruse. È una sofisticata clownerie intellettuale, un gioco verbale alle soglie dell'assurdo, ingabbiato in una dizione volutamente sottotono, pigra, assente. In questo nuovo lavoro, L'anarchico non è fotogenico, incongruamente vestiti da cow-boy riflettono a modo loro sulla morte, alternando battutacce a intuizioni folgoranti: morire, ad esempio, è necessario, perché «finché siamo vivi manchiamo di senso».
La prima cena di Michele Santeramo sembra partire, come il suo testo precedente, Il guaritore, da uno spunto vagamente eduardiano – un padre morto che impone nel testamento una cena postuma fra gli odiati figli, per godere dei rancori che scatenerà quell'incontro – ma si trasforma via via in un livido thriller famigliare: il vecchio ha lasciato in eredità dei biglietti del "gratta e vinci", uno dei quali – quello che potrebbe garantire una grossa somma – viene fatto sparire. Chi l'ha preso? La ricerca del ladro spinge i personaggi alle soglie della violenza. Sullo sfondo una radiolina a transistor trasmette gli echi di una guerra che s'avvicina. Questo ignoto conflitto è in verità solo accennato, come il finale, stranamente monco, ma il meccanismo complessivamente funziona. L'asciutta regia di Michele Sinisi va dritta all'osso, evocando gli aspiranti ereditieri come dei gelidi mostriciattoli piccolo-borghesi. Di Namur, un testo inedito del '98 di Antonio Tarantino, mi sono parsi interessanti lo sfondo storico, l'armata francese in rotta dopo Waterloo, i due protagonisti, un giovane soldato e una matura vivandiera ancora pronta alla passione, e l'idea di uno scambio di ruoli fra i due, per cui lui vorrebbe salvarsi vestendo gli abiti della donna e lei si scopre furori eroici indossando la divisa.
Questi ingredienti non riescono però a far scoccare la scintilla. E la recitazione sopra le righe di Roberto Corradino e Teresa Ludovico, che firma anche la regia, non aiuta a chiarire le intenzioni dell'autore.
Fa pensare e discutere Discorso celeste, la terza e più complessa tappa del percorso di Fanny & Alexander nella retorica pubblica odierna: dopo i linguaggi della politica e della pedagogia, è ora la volta di un ambiguo connubio fra sport e religione, dove celeste è il colore della nazionale, ma anche il richiamo a un controverso paradiso: e questa molteplicità di livelli si coglie nella costruzione dell'azione, immaginata come una sorta di videogame in cui un padre-dio-allenatore si crea un avatar che attraverso una serie di prove agonistiche deve conquistare la benevolenza del genitore.
A comportare ulteriori stratificazioni c'è il fatto che l'interprete è Lorenzo Glejieses e la voce che lo guida è quella del padre Geppy, in un confronto fra attori di due generazioni, con tanto di citazioni dall'Amleto. La composizione visiva, fra abbacinanti controluce e immagini in 3D, è di alta qualità. La chiave è nel nesso tra crocifissione, sconfitta sportiva e sottomissione al nume famigliare: ma il significato resta oscuro.
Mario Perrotta aveva proposto qui il suo primo «studio» su Ligabue, che gli è valso il premio Ubu come miglior attore. Pitur, seconda tappa del progetto, è un approccio più prettamente coreografico: lui scandisce al microfono frasi smozzicate – un delirio dall'andamento puramente ritmico – mentre sette figure in tenuta bianca da istituto psichiatrico danzano situazioni legate alla solitudine di Ligabue, al suo spiare le ragazze. In questa poetica variazione sul tema spicca la bella musica di Mario Arcari, che rielabora motivi da balera.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi