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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2014 alle ore 14:23.
L'ultima modifica è del 08 giugno 2014 alle ore 18:46.

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Quando Francesco ha piantato l'ulivo insieme a Shimon Peres nel giardino della presidenza dello Stato d'Israele, in molti tra gli ebrei – laici soprattutto, ma anche religiosi - hanno visto nel gesto una volontà profonda del papa argentino di impegnare tutta la sua autorevolezza (in crescita esponenziale ogni giorno che passa). Un gesto che arrivava a poche ore dall'annuncio dell'incontro di preghiera di Roma, evento formalmente religioso ma immerso per intero dentro una concreta prospettiva politica di pace che per il Medio Oriente, e in particolare nello spicchio compreso tra il Sinai, il Giordano e il Mediterraneo, appare e scompare ormai da oltre un secolo. Ma dentro il mondo ebraico le posizioni sull'evento sono davvero molto diverse le une dalle altre.

Come ha raccontato Pagine Ebraiche – mensile dell'Ucei appena uscito – nel rabbinato italiano varie sono le sensibilità. Per Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, c'è stata confusione nel viaggio del Papa in Terra santa tra politica e religione. «Il Vaticano è parte in causa in questo conflitto e non può ergersi come mediatore super partes» ha detto il rabbino, che oggi non sarà in Vaticano per precedenti impegni. Inoltre rileva come possa essere considerato un incontro religioso quello di oggi che vede la presenza di Peres «che non mi sembra un assiduo frequentatore di luoghi di preghiera e che mi sorprenderebbe iniziasse ad esserlo a causa del papa. È un'impostazione alla quale quadro non soltanto con perplessità ma che trovo anche pericolosa».

Più ottimista il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana, Giuseppe Momigliano, che ha riconosciuto a Bergoglio uno sforzo positivo di equidistanza tra le parti in conflitto e ha dato atto dell'importanza dei gesti del pontefice al memoriale di Yad Vashem quando ha baciato le mani ai sei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Decisamente molto positivo il rabbino capo di Firenze, Joseph Levi – che sarà presente all'incontro e che conosce bene da anni il rabbino argentino Skorka, lo storico amico del Papa - che vede nell'iniziativa un legame storico con il sogno di Giorgio La Pira, «che rivoluzionò il concetto di dialogo».

Un plauso all'evento è espresso dal rabbino David Rosen, responsabile del dialogo interreligioso per l'American Jewish Committee – anche lui presente a Roma - che però sottolinea, intervistato da Avvenire: «Rimango abbastanza scettico. Non lo nego: se Papa Francesco avesse invitato il primo ministro Benjamin Netanyahu l'evento avrebbe avuto molto più impatto». E qui si torna alla politica: il premier israeliano è decisamente contrariato dalla partecipazione di Peres, che tra pochi giorni lascerà l'incarico di presidente (anche se ci sono problemi politici per l'elezione del successore), e non a caso secondo gli osservatori giusto tre giorni fa ha annunciato nuove costruzioni di case negli insediamenti a Gerusalemme est, congelate da mesi.

L'incontro di Roma vede un papa eletto da poco incontrare due presidenti senza poteri e quindi non in grado di prendere anche solo degli impegni. Ma l'importanza dei gesti è tutta in questa fase, tema questo sottolineato da Renzo Gattegna, presidente dell'Ucei, anche lui oggi presente in Vaticano. Dice Gattegna: «Ricordo che il Papa Bergoglio ha già pronunciato e scritto parole molto molto chiare per esprimere le sue intenzioni e i suoi sentimenti verso gli ebrei. Tutto ciò è stato esplicitato nella Evangelii Gaudium».
Per Riccardo Pacifici, presidente della Comuntà ebraica di Roma, «questo momento di preghiera che ci apprestiamo a compiere ci ricorda come alla base di ogni trattativa politica debbano esserci i valori condivisi e il rispetto nei confronti del prossimo. L'iniziativa di Papa Francesco dovrà però essere solo il primo tassello di un lungo percorso».

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