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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2014 alle ore 13:08.

Prova a buttarla sul ridere l'ex ministro Claudio Scajola, arrestato nell'ambito dell'indagine Breakfast della Dda di Reggio Calabria, con l'accusa di aver in qualche modo agevolato la latitanza del suo amico Amedeo Matacena, condannato in via definitiva a 5 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa.

Nell'audio depositato al Tribunale del Riesame dalla Procura di Reggio Calabria, si sente Scajola affermare: «Non ho mai fatto affari con nessuno perché non ne sono capace. L'ultima volta che ho comprato una casa ho fatto un casino. E poi vado a fare affari con loro... ». Il riferimento è chiaramente alla vicenda della casa romana con vista Colosseo, dalla quale è uscito giudiziariamente indenne a fronte di polemiche mediatiche infinite e l'altro riferimento, altrettanto chiaramente, è alla filiera societaria dei coniugi Matacena, buona parte della quale, secondo l'accusa, è all'estero.

«La mia preoccupazione – ha spiegato Scajola – era sempre quella, la grandissima difficoltà economica che mi pareva di arguire» avesse Chiara Rizzo, la moglie di Amedeo Matacena, a Dubai senza passaporto.
Dunque nessun affare in comune e, comunque, neppure alcun aiuto per la latitanza dell'armatore reggino ed ex parlamentare di Forza Italia. Scajola è chiaro nell'affermarlo, soprattutto quando fa riferimento ad una telefonata nella quale consiglia a lady Matacena che la scelta migliore sarebbe stata quella di far tornare il marito in Italia. «In questa telefonata io fui molto duro nel dirle quale era secondo me la via che avrebbe dovuto scegliere, e cioè il marito sarebbe dovuto venire qua – afferma Scajola davanti ai pm Giuseppe Lombrado e Francesco Curcio –. Avrebbe sofferto ma comunque il marito latitante è peggio che in prigione. Lei avrebbe potuto andare a visitarlo una volta la settimana. Lei avrebbe potuto cercarsi un lavoro, è una bella donna faceva la modella poteva trovare la possibilità di fare qualcosa. Io l'avrei aiutata come l'ho aiutata facendole dare una collaborazione».

Di questa telefonata, però, non sembra esserci traccia, quantomeno nella ordinanza con la quale scattò la custodia cautelare per l'ex ministro e gli altri indagati.
Scajola, nel corso dell'interrogatorio, si presenta come vittima di una situazione che non capisce fino in fondo. Anzi, ad un certo punto, qualcosa non gli torna: «Quello che mi fece scattare e lo feci sempre cercando di capirla, in qualche modo di assecondarla perché capivo che era sola, turbatissima, che si era trovata in un mondo opposto a quello che sapeva. Diventò un po' diverso da parte mia dall'episodio scatenante della macchina perché non mi tornava e dicevo non voglio sapere». Il riferimento, in questo caso, è alla Porsche Cayenne che aveva la Rizzo, sulla targa della quale Scajola fece fare accertamenti dalla sua scorta, e che Rizzo, nel suo interrogatorio, ha detto che le era stata regalata da Francesco Caltagirone Bellavista.

r.galullo@ilsole24ore.com

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