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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2014 alle ore 06:38.

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ROMA
«La cosiddetta "corruzione collusiva" - in cui non c'è un soggetto attivo e uno passivo ma un patto liberamente accettato da tutti - è la più difficile da debellare penalmente se non c'è qualcuno, all'interno del patto, che parli o commetta un errore. Bisogna fare una riflessione più generale e chiedersi chi, in questo sistema, è il più responsabile: il pubblico ufficiale? l'impresa? l'amministratore delegato? il Consiglio di amministrazione? il partito politico? Non credo che il sistema penale riesca ad acchiappare questa complessità».
Nicola Bonucci, Direttore dell'Ufficio legale Ocse, analizza il salto di «qualità» fatto dalla corruzione in questi anni. L'occasione è la Quarta Conferenza di Alto livello sull'anticorruzione organizzata a Roma dall'Italia, co-presidente (con l'Australia) del G20, per riflettere sulla collaborazione fra governi, imprenditori e società civile. L'evento è coorganizzato con l'Ocse ed è stato chiuso proprio da Bonucci, oltre al magistrato Stefano Mogini, co-presidente del gruppo anticorruzione del G20.
Che frutti ha dato la collaborazione?
Il gruppo ha definito una serie di principi sulla transparency of ownership delle persone giuridiche e dei cosiddetti trust di common law, prevedendo l'obbligo dei governi di identificare la persona fisica che controlla una società o un trust, così da limitare la possibilità che società-schermo siano usate per coprire attività criminali e responsabilità penali. Lo so, non sono cose glamour o sexy, ma sono fondamentali, perché dietro queste strutture c'è sempre una persona fisica e finché non si risale ad essa il problema non si risolve».
Un tempo, all'estero l'Italia era "spaghetti e mafia" e poi è diventata "spaghetti e bunga bunga". Ora c'è il rischio che sia percepita come "spaghetti e corruzione"?
Il rischio c'è ma non credo succederà, perché nessun Paese può permettersi di dare lezioni di moralismo. Gli scandali di corruzione scoppiano ovunque: Finlandia, Germania, Svezia, Francia, Regno Unito. C'è più consapevolezza che il problema è comune. E c'è una presa di coscienza collettiva che questo non è solo un problema nazionale: la globalizzazione economica lo ha ampliato, non tanto quantitativamente ma qualitativamente. Si parla di valori ingentissimi della corruzione, di appalti pubblici estremamente complicati, a volte internazionali, con giri di fornitori complessi, di imprese ad hoc di diversa cittadinanza. Si è globalizzata anche l'economia illegale.
Qual è l'ultima fotografia dell'Ocse sull'Italia e sulle sue norme anticorruzione?
Risale a giugno scorso. I nodi sono gli stessi, a cominciare dalla prescrizione. La legge Severino ha fatto un passo avanti che però non risolve il problema generale. L'anomalia italiana è che la prescrizione non viene interrotta neanche dalla condanna di primo grado, il che è molto grave nella lotta alla corruzione internazionale in cui è necessaria la cooperazione e il fattore tempo è cruciale. Altre criticità sono il falso in bilancio e il livello delle sanzioni pecuniarie, poco dissuasive per le imprese. Quanto alla concussione, l'Ocse ha deciso di monitorare lo spacchettamento previsto dalla legge (concussione/induzione).
Qual è l'effettivo impulso di organismi internazionali se le loro raccomandazioni restano lettera morta?
Anzitutto c'è una questione da affrontare: la sconnessione sempre maggiore tra un sistema economico globalizzato e i sistemi giuridici nazionali. Gli organismi internazionali non hanno uniformità del diritto. Si lavora a livello nazionale rispetto a fenomeni ormai globalizzati: corruzione, evasione fiscale, riciclaggio, sono spesso interconnessi e l'autorità investigativa nazionale coglie solo uno spicchio dello schema complessivo. La grande tensione del XXI secolo è tra mondo giuridico e mondo economico. Il G20 e gli altri organismi internazionali non possono risolvere tutti i problemi, ma che tutti i Paesi si siedano attorno a un tavolo per parlare di corruzione è sicuramente un passo avanti.
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