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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2014 alle ore 18:26.

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Nouri al-Maliki (Ap)Nouri al-Maliki (Ap)

NEW YORK – Gli Stati Uniti chiedono la testa di Nouri al-Maliki. E' questa la "soluzione politica" per l'Iraq alla quale sta alacremente lavorando alacremente Barack Obama, che tra pochi minuti effettuerà dalla Casa Bianca una nuova presa di posizione sulla crisi. L'amministrazione è convinta che il premier sciita di Baghdad sia in realtà il primo responsabile della straordinaria avanzata delle milizie di Al Qaida e degli estremisti sunniti, a causa dell'incapacità di cucire alleanze etniche e religiose tra le anime del Paese.

Anzi, alla sua vocazione settaria che lo ha visto penalizzare i sunniti, spesso incarcerando popolari leader, emarginare i curdi e avocare a sè e a una ristrettissima cerchia gran parte dei poteri e delle cariche. Una ricetta che avrebbe adesso letteralmente spianato la strada alle milizie ribelli, spiegando la demoralizzazione dell'esercito regolare, cementando profane alleanze tra jihadisti ed ex fedeli di Saddam Hussein e spingendo la comunità sunnita nelle braccia degli insorti.

Per questo - per moltiplicare le pressioni a favore di una svolta che liquidi al-Maliki oltre che per la difficoltà oggettiva a individuare obiettivi da colpire - il Pentagono ha per ora tolto il dito dal grilletto, escludendo immediate azioni militari contro gli insorti. L'offensiva scattata a tutto campo è piuttosto politico-diplomatica: alla rimozione di al-Maliki, hanno rivelato fonti dell'amministrazione, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato stanno lavorando con l'Iran, grande patrono degli sciiti ma a sua volta interessato a fermare l'avanzata dei ribelli e la frantumazione settaria dell'Iraq. Contatti, oltre che di recente a Vienna ai margini dei negoziati sul disarmo nucleare di Teheran, sono costantemente in corso a Baghdad tra gli inviati dei due governi, con Washington rappresentata dall'alto funzionario del Dipartimento di Stato Brett McGurk. Una uscita di scena di al-Maliki viene considerata essenziale anche per la cooperazione di altri alleati nella regione ad una stabilizzare l'Iraq, dall'Arabia Saudita alla Turchia.

Gli sviluppi elettorali a Baghdad potrebbero aiutare Washington. Il partito di al-Maliki ha ottenuto solo una maggioranza relativa dei seggi in recenti elezioni parlamentari e questo non significa che debba essere lui a formare un nuovo governo. I risultati devono oltretutto essere ancora ufficialmente ratificati e a quel punto l'incarico potrebbe essere affidato ad altri. La recente mobilitazione degli scitti sotto attacco a fianco del premier – che non a caso oggi ama sfoggiare immacolate uniformi militari – complica tuttavia i piani per scaricarlo.

La disillusione americana per al-Maliki, di sicuro, ha assunto con il passare dei giorni e l'aggravarsi dell'emergenza toni sempre più duri. Serpeggia da tempo e fin dagli inizi dell'ultima crisi l'amministrazione non ha fatto mistero di porre come condizione di eventuali interventi, senza truppe ma con missili, rifornimenti di armi, intelligence e addestramento, un nuovo processo di riconciliazione nel Paese. Obama stesso l'ha detto davanti alle telecamere.

Le prese di posizione da allora si sono inasprite: "Un chiaro successore, che dia vita a un governo legittimo, sarebbe molto salutare", ha fatto sapere il Segretario di Stato John Kerry. "Non ci sono dubbi che l'esecutivo di Baghdad, compreso il primo ministro, non abbia fatto abbastanza per governare in modo inclusivo e che questo abbia contribuito alla situazione di crisi", ha rincarato nelle ultime ore il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. E ha aggiunto: "Il popolo iracheno dovrà decidere la composizione di un nuovo governo e chi deve essere il primo ministro".

La totale mancanza di credibilità di al-Maliki, agli occhi degli americani, è stata confermata senza ombra di dubbio da un incontro d'urgenza questa settimana in Iraq per cercare di dar vita a una sorta di unità nazionale anti-crisi tra sciiti, sunniti e curdi. Il risultato è stato un nulla di fatto. Un diplomatico arabo, parlando al Wall Street Journal, ha detto scoraggiato: "Sfortunatamente il premier è riuscito solo a unire ISIS, l'organizzazione di Al Qaeda, con vecchi sostenitori di Saddam e sostenitori dell'ex partito baathista sunnita".

Il messaggio dell'amministrazione Obama, che dovrebbe prendere in queste ore la forma di una vera e propria nuova strategia irachena, è stato messo in chiaro anche durante incontri di consultazione avuti con i leader del Congresso americano. Il senatore californiano Dianne Feinstein, presidente della Commissione di Intelligence e influente leader democratico, l'ha dichiarato fuori dai denti: "Siamo franchi, il governo Maliki deve andarsene se vogliamo una qualunque riconciliazione in Iraq".

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