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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2014 alle ore 06:40.
L'ultima modifica è del 26 giugno 2014 alle ore 09:59.

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Sembrava una notizia bomba: dopo quarant'anni di divieto quasi assoluto, gli Stati Uniti hanno dato via libera alle prime esportazioni di greggio. In realtà non è esattamente così. Ad essere venduto sui mercati internazionali non sarà il petrolio così come sgorga dai pozzi sempre più generosi d'oltre Oceano, ma condensati che hanno subito un processo, sia pure minimo, di lavorazione: prodotti raffinati insomma, che come tali non avrebbero bisogno di alcuna autorizzazione per l'export. L'amministrazione Usa era stata comunque sollecitata da due società ad esprimersi al riguardo e ha concluso che poteva dare il nulla osta. È nato così l'equivoco, cui ha dato voce il Wall Street Journal con un articolo diffuso mentre in Europa era già notte.

Benché sia stata ridimensionata nel corso della giornata, la notizia non è comunque irrilevante. Anche se il dipartimento per il Commercio Usa si è affannato a spiegare che «non c'è stato alcun cambiamento nelle politiche sull'esportazione di greggio», Washington ha infatti innegabilmente compiuto un primo – benché timido e forse anche un po' ipocrita – passo proprio in quella direzione.

La vicenda col passare delle ore è stata chiarita, grazie ai maggiori dettagli forniti dai protagonisti: Pioneer Natural Resources e Enterprise Products Partners. Le due società, impegnate nello sfruttamento dello shail oil di Eagle Ford, in Texas, possono fin d'ora cominciare a rifornire clienti stranieri, senza limiti e senza bisogno di permessi ad hoc. Il dipartimento del Commercio ha chiarito ogni dubbio al riguardo, riconoscendo che i loro condensati vengono trattati con stabilizzatori e distillatori: un processo molto meno impegnativo della raffinazione vera e propria e ancora più rudimentale di quello effettuato con gli "splitter" (un altro genere di impianto, su cui molte compagnie stavano puntando per aggirare il divieto all'export). Il condensato, un petrolio così leggero da essere simile alla benzina, in pratica viene soltanto separato dalle sue parti più volatili: gas come il butano. Tanto basta per poterlo esportare, ha stabilito il dipartimento per il Commercio, allargando con un semplice atto amministrativo le maglie della legge e attenuando un divieto che finora sembrava (o era?) ben più rigido. Le ambiguità, non solo legislative, ma anche tecniche, aiutano: nemmeno gli esperti concordano sulla definizione di "condensato" e molte imprese, grazie al fatto che lo producono separandolo dal gas (e quindi non lo estraggono direttamente dal terreno) già lo esportavano liberamente.
Non chiaro neppure quanti condensati producano esattamente gli Stati Uniti. Il Governo afferma che quest'anno potrebbero essere 1,3 milioni di barili al giorno, ma gli analisti ritengono che i volumi esportabili siano molto inferiori, almeno nell'immediato: non più di 300mila bg.

La maggiore apertura del Governo è stata accolta con favore dall'American Petroleum Institute (Api), l'associazione di categoria dei petrolieri Usa, che però esorta a fare di più: «Permettere l'export di condensati lavorati è un passo molto piccolo, che va nella direzione di un obiettivo molto più importante, che è il libero commercio». Cancellare il divieto di esportazione, in vigore dallo choc petrolifero degli anni '70, sarà prima o poi una necessità secondo gli esperti: con lo shale la produzione di greggio negli Usa è cresciuta del 60% rispetto al minimo di 5 mbg toccato nel 2008 e oggi supera 8 mbg, ma il sistema di raffinazione locale non ce la fa ad assorbire quantità così grandi di greggi ultra-leggeri.
Una decisione drastica non è comunque facile da prendere, perché una grande fetta di opinione pubblica teme che liberalizzare l'export farebbe salire i prezzi in patria. Almeno fino alle elezioni di mid-term, in novembre, è improbabile che la classe politica si spinga a tanto. Nel frattempo, meglio cambiare qualche specifica tecnica.
@SissiBellomo
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