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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2014 alle ore 09:41.

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Abudllah Abdullah non ha dubbi. Dietro l'ennesima débâcle del processo elettorale, c'è sempre lui: Hamid Karzai. Nessuno è finora riuscito a fornire prove convincenti contro il controverso presidente dell'Afghanistan, accusato di aver manipolato le operazioni di scrutinio. Ma sono ormai sempre di più i politici, i giornalisti e gli analisti, fino allo stesso fratello di Karzai, Mahmoud, ad esser convinti che qualcosa di grave sia accaduto. E che chi lo ha fatto accadere – sostengono i suoi oppositori- è quel presidente insediato al potere nel 2002 dagli Stati Uniti e poi trasformatosi dall'alleato su cui tutti puntavano a uno scomodo quanto necessario interlocutore, ingestibile nei peggiori momenti.

La storia, dunque, si ripete. Sembra che il turbolento Afghanistan non sia capace di scindere quell'inossidabile connubio che ha sempre caratterizzato ogni voto dalla caduta del talebani, nel dicembre del 2001: vale a dire che un'elezione non può non essere accompagnata da gravi brogli. Le presidenziali del 2009, fallimentari sul fronte della trasparenza, sono ancora un ricordo fresco. Allora, dopo denunce di colossali frodi trascinatesi per tre mesi, uno dei due candidati in corsa Abdullah Abdullah, decise di abbandonare la competizioni. Lasciando così campo libero a Hamid Karzai. Per come erano andate le cose, sembrava che questa volta ci fossero i presupposti per un processo elettorale, se non totalmente trasparente, comunque credibile.

Anche perché Karzai non aveva potuto candidarsi per un nuovo mandato. La Costituzione non lo permetteva. Così il 5 aprile milioni di afghani si erano riversati alle urne per votare il loro nuovo presidente. Era la prima volta nella storia del Paese che in un voto democratico avveniva un passaggio di poteri da un presidente all'altro. Considerando il contesto in cui si votava, le difficoltà logistiche, e le minacce dei Talebani, particolarmente attivi negli ultimi mesi, la risposta del popolo afghano era stata sorprendente. Quasi il 60% degli elettori aveva votato, un'affluenza superiore a ogni previsione. D'altronde in principio la percezione era di una competizione elettorale aperta, con otto candidati in corsa. I due sfidanti arrivati al ballottaggio rispecchiano le due maggiori etnie del Paese. Abdullah Abdullah era quello che aveva strappato più consensi. Ex oftalmologo, 53 anni, ed ex ministro degli Esteri (2001-2006) il politico più popolare tra i Tajiki, raccolto nel primo turno il 45% delle preferenze. Sembrava avere le carte in regola per farcela al ballottaggio del 14 giugno. Il suo rivale, l'ex ministro elle Finanze Ashraf Ghani, anche lui un personaggio autorevole, sulla carta aveva meno possibilità. Vissuto all'estero per molti anni, conosciuto come dottor Ghani, l'ex Ministro delle Finanze dal 2002 al 2004, 59 anni, si è fermato al 31,5 per cento dei consensi.

Dopo il voto del 14 giugno , tuttavia, qualcosa è andato storto. Fino alle dimissioni, del commissario, Zia-ul-Haq Amarkhail, uno dei principali responsabili della commissione elettorale afgana, accusato da Abdullah di gravi brogli. Nessuno ora sa con precisione quando e come saranno diffusi i risultati. Forse a inizio luglio, forse molto dopo. Abdullah ha già minacciato di ritirarsi per l'impossibilità di procedere con uno scrutinio regolare. E le rabbia dei 15mila simpatizzati che venerdì hanno dimostrato davanti al palazzo presidenziale non prelude a nulla di buono. "Morte a Karzai ". Urlavano alcuni di loro sventolando i poster del loro beniamino Abdullah. L'obiettivo a cui punta Karzai è chiaro, accusano i suoi oppositori: fare in modo che nessuno degli sfidanti emerga con una maggioranza chiara e credibile. Creare contesto in cui lui possa tenere ancora in mano le redini del potere. Si rischia così un pericoloso vuoto di potere a pochi mesi dal ritiro delle truppe internazionali dall'Afghanistan, previsto per il 31 dicembre. Un periodo in cui gli insorti cercheranno di intensificare la loro offensiva.

Rimane, peraltro, ancora sospesa la delicata questione del Bilateral Security Agreement (Bsa). L'accordo di sicurezza che prevede dal 2015 una forza internazionale di supporto e assistenza al male organizzato esercito afghano doveva essere firmata dal Governo afghano già da diversi mesi. Karzai si è rifiutato di firmarla perché, tra l'altro, offriva una protezione giuridica particolare alle truppe straniere. Irritato il presidente americano Barack Obama aveva ribattuto che, se non firmerà il Bsa, Washington ritirerà tutte i suoi soldati a fine anno, lasciando così il Paese in mano a un esercito incapace di contrastare i talebani. Una pessima notizia per il nuovo Afghanistan.

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