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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2014 alle ore 10:07.
L'ultima modifica è del 28 giugno 2014 alle ore 10:29.

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Nei secoli passati era uso riconoscere il valore dei nemici sconfitti facendo loro dono di un simbolo capace di identificare lo spirito di chi aveva vinto: un omaggio ancor più sentito dell'onore delle armi perchè quel simbolo, conquistato in battaglia, poteva essere portato per sempre da chi lo aveva meritato.

Lo spirito delle scarpette rosse, per lunghi tratti di questa stagione, era stato concesso a Siena: che lo ha portato in campo onorandolo fino a ieri sera, nell'ultima partita. Lo spirito di Gamba e Rubini, Pieri e Riminucci, Kenney, D'Antoni, Meneghin, McAdoo e Premier. Lo spirito di Nando Gentile, Fucka e Bodiroga.

Quello spirito che, a cavallo tra il terzo e quarto periodo, in molti al Forum di Assago hanno temuto non volesse più tornare a Milano: l'Olimpia, in pochi minuti, era passata sotto la schiacciasassi senese subendo un parziale di 19-2 che aveva ribaltato il risultato da un tranquillo 41-29 a un rabbrividente 43 a 48. E poi, come se non bastasse, Siena aveva accelerato ancora portandosi a più otto, issandosi fino a un 50-58 che sembrava destinato a ripetere un copione già visto in stagione: l'Olimpia che si scioglieva come neve al sole proprio sul traguardo. Come in Coppa Italia, come in Eurolega.

A quel punto lo spirito delle scarpette rosse ha fatto la sua scelta, è tornato dove era nato. Dove era logico che rinascesse dopo diciotto anni di attesa. E del resto chi lo avrebbe spiegato a Sandro Gamba, seduto a pochi metri dal campo, che le scarpette rosse erano diventate toscane?

Con quello spirito Milano è tornata a essere l'Olimpia, la squadra che non muore mai, che crede alle rimonte impossibili, che combatte su ogni pallone.

Nelle mani di Hackett, mentre rubava le due sfere decisive, si erano incarnate la rapidità e la sapienza di Mike D'antoni. Nel petto di Melli, che catturava i rimbalzi uno dietro l'altro, batteva il grande cuore di Kenney e Meneghin. Nella trance agonistica di Alessandro Gentile, che non perdeva più un colpo, si intuiva il braccio di Roberto Premier, che quando annusava l'odore della vittoria trovava il canestro come nessun altro era in grado di fare.

Così, quando Jerrels ha scagliato la tripla del pareggio sul 62-62, si è capito che nei suoi occhi c'era solo l'immagine dello scudetto. La certezza che quel pallone sarebbe entrato. Il profumo di un trionfo che almeno la metà dei 12mila tifosi presenti al Forum non avevano mai annusato: troppo piccoli, diciotto anni fa, o addirittura non ancora nati.

Milano ha vinto con il cuore contro una Siena che, con lo stesso cuore, ha combattuto con orgoglio fino all'ultimo istante, tentando di recuperare anche quando a pochi secondi dalla fine nemmeno l'incredibile avrebbe potuto concedere una possibilità di rimonta. Una Siena che proprio quest'anno, senza i trucchi dell'era Minucci, ha legittimato sul campo una storia di successi. Nessuno pensava che Marco Crespi e i suoi uomini potessero arrivare dove sono arrivati, a tre minuti e 52 secondi dall'ottavo titolo consecutivo. Nessuno pensava potessero reggere così a lungo contro la corazzata di Milano, dove perdevano il confronto diretto in ogni singolo ruolo. Il 74 a 67 finale non è una sconfitta della quale vergognarsi, ma un trofeo da portare con orgoglio.

Una grande Siena rende ancora più grande lo scudetto dell'Olimpia: vincere quando sei obbligato a farlo è difficilissimo, vincere quando hai già mancato l'obiettivo due volte in pochi mesi è un'impresa. Perchè le gambe si svuotano, le braccia diventanno pesanti, le mani tremano. Il traguardo è vicino, ma è sempre un passo oltre le tue forze. Con questo peso addosso gli uomini di Banchi hanno affrontato la stagione: l'attesa per una vittoria certa era l'ostacolo più alto da superare.

È giusto ricordarli tutti, i protagonisti di questo trionfo. A partire da Giorgio Armani, che ha atteso dieci anni per vincere il titolo, sopportando sconfitte apparentemente inspiegabili e che solo adesso stanno trovando una spiegazione: un proprietario tifoso come il suo collega milanese Massimo Moratti, che quando ha iniziato a sollevare trofei non ha smesso più. Il presidente Proli, che ha tentato tutte le strade possibili per far tornare Milano alla dimensione che gli compete: quella del più forte. Flavio Portaluppi, che a dispetto delle accuse di alcune frange di tifosi ha sempre incarnato lo spirito più vero dell'Olimpia: nel 1996, per il 25esimo scudetto, era in campo a sollevare la coppa. Chi lo insulta dovrebbe ricordarsi che nelle sue vene scorre il sangue di Fiero il Guerriero.

Coach Banchi e il suo staff tecnico: hanno vinto al primo tentativo, cosa mai riuscita a nessun altro. Gestire un gruppo di campioni e primedonne è anche più difficile che allenare ottimi giocatori. Sono entrati nella storia di questa società.

Come ci sono entrati Jerrels, Langford, Melli, Samuels, Cerella, Hackett, Kangur, CJ Wallace, Lawall, Moss e Tourè. Come Alessandro Gentile, il capitano, che finalmente potrà guardare papà Nando negli occhi e dirgli che il Tricolore, sulla maglia dell'Olimpia, l'ha cucito anche lui. Ognuno ha portato il suo contributo: accanto al gigante Samuels, arrivato stremato alle ultime gare dopo un'annata da protagonista, è tornato splendere Gani Lawall proprio quando sarebbe stato facile perdersi tra mille paure. Jerrels ha scagliato i tiri che in casa Olimpia nessuno dimenticherà mai, nemmeno tra cent'anni. Langford ha sacrificato il suo bottino personale e mortificato la sua classe immensa per dedicarsi all'arte inutile (per lui) della difesa. Melli ha rivestito il suo talento con l'abito del carattere e chiuso la porta del canestro a chiunque tentasse di avvicinarsi. Hackett ha testardamente inseguito il miglior sé stesso in questi playoff, ritrovandosi proprio nel momento decisivo: il futuro dell'Olimpia passa anche dalle sue mani. Moss ha spezzato il pane della difesa ed è arrivato distrutto alle ultime partite, ma con lui in campo davanti al canestro milanese si alza un muro insormontabile. Kangur e Wallace hanno sopportato il ruolo dei non protagonisti, anche se altrove sarebbero fissi nel quintetto base: lo hanno fatto con intelligenza sfruttando al massimo i pochi minuti concessi dal gioco della rotazioni. Cerella è diventato l'idolo del Forum: quando Dan Peterson parlava di sputare sangue già immaginava che un giorno a Milano sarebbe arrivato lui. Touré ha sgomitato tutti i giorni in allenamento con questi campioni per farli arrivare al meglio al momento della partita: nella Grande Olimpia degli anni 80 era il ruolo di Mario Governa, che i tifosi di Milano non hanno dimenticato.

E infine Alessandro Gentile, il capitano, che è appena stato chiamato nell'Nba con il numero 53: destinazione Houston Rockets. Un destino segnato per un'enorme talento che forse, per lasciare il segno anche dall'altra parte dell'Oceano, ha bisogno di qualche anno ancora per completare la propria maturazione. L'Olimpia è casa sua, per anni è stata definita la 23esima squadra dell'Nba: c'è forse un posto migliore per crescere?

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