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Questo articolo è stato pubblicato il 08 luglio 2014 alle ore 07:31.
L'ultima modifica è del 08 luglio 2014 alle ore 07:44.

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Da tempo la partita delle poltronissime europee tiene gli onori della cronaca. Salvo sorprese, l'arcano sarà sciolto il 16 luglio quando i 28 capi di Stato e di governo dell'Unione nomineranno a Bruxelles i nuovi presidenti del Consiglio europeo, dell'Eurogruppo e il nuovo ministro degli Esteri, mister Pesc, per dirla in gergo. Allora si saprà anche se l'Italia sarà riuscita a conquistare una delle tre prestigiose posizioni. Potrebbe essere l'ultima.

C'è però un'altra partita in atto, «di quelle che non danno lustro ma potere vero» come ricorda un eurodiplomatico di lungo corso, che da mesi si gioca in sordina a Bruxelles e dintorni e diventerà rovente non appena saranno state riempite tutte le caselle del gotha europeo.
È la partita dei posti apicali nelle istituzioni Ue. E prima di tutto nella Commissione, che di sicuro negli ultimi anni ha perso peso politico e potere di iniziativa autonoma ma resta l'organo giuridicamente ineludibile per qualsiasi raccomandazione, decisione legislativa o regolamentare dotata dei crismi della legittimità comunitaria. Nell'assalto alla diligenza che si prepara dietro l'angolo, l'Italia parte handicappata e per questo rischia, in caso di colpevole disattenzione, improvvisazione o magari di olimpica indifferenza verso gare apparentemente "minori", di ritrovarsi bruciata dall'agguerrita concorrenza altrui, che, al contrario della nostra, è stata invece lungamente e meticolosamente programmata a tavolino.

Ancora due anni fa avevamo sette direttori generali in commissione, cioè i posti che contano: grossomodo stessa quantità, e, soprattutto qualità simile a quella degli altri grandi Paesi, Germania, Francia, Gran Bretagna. Tra pensioni e passaggi ad altri incarichi, oggi siamo scesi a quattro: abbiamo perso le Dg Affari interni, Fondi regionali e Allargamento. Molto presto però quel numero potrebbe finire dimezzato a due. Marco Buti, che con la Dg Ecfin detiene l'incarico indubbiamente più importante nella congiuntura attuale, potrebbe decidere di optare per l'Ocse a Parigi, visto che la sua poltrona è matura per la rotazione. D'altra parte Marco Benedetti lascerà la Dg Interpretariato per sopravvenuti limiti di età.

In questo scenario resterebbero italiane soltanto la Dg Salute e consumatori con Paola Testori Coggi e quella Antifrode con Giovanni Kessler. Due direzioni generali come l'Olanda, che però controlla la potentissima Concorrenza insieme a Ricerca e Sviluppo. O come il piccolo Portogallo che governa Trasporti e Sviluppo e cooperazione.
«Stiamo lentamente scomparendo dai vertigi decisionali della Commissione» denuncia preoccupato qualcuno in costante contatto con la cosiddetta burocrazia comunitaria, che sa bene quanto sia fondamentale per la tutela degli interessi nazionali avere nella sua stanza dei bottoni referenti sicuri e affidabili. Del resto il confronto con le attuali Dg degli altri Grandi non può che confermare l'allarme del nostro. Oggi la Germania, che ha prontamente occupato due delle sedie che abbiamo lasciato vacanti, Interni e Fondi regionali, detiene anche Eurostat e Ambiente. La Francia ha 5 Dg come la Gran Bretagna e quasi tutte eccellenti. Sono francesi Commercio, Energia, Occupazione, Giustizia e Bepa, il "pensatoio" del presidente. Sono inglesi Mercato interno e Servizi finanziari, Reti, Digitale, Comunicazione e Pesca. La Spagna di Dg ne ha 3 ma di grande qualità, Industria, Bilancio, e Servizio giuridico.

Se dai direttori generali si passa ai loro vice, la presenza italiana appare perfino più eterea, dei due attuali ce ne resterà presto uno, Viola al Digitale, in quanto Barbaso (Energia) è prossimo alla pensione. Anche tralasciando la qualità dei posti, la Germania ne ha 6, Francia, Gran Bretagna e Olanda 3 ciascuna, la Spagna 2 come l'Austria.
Ma non finisce certo qui la sequela dei numeri imbarazzanti che spiegano come mai troppo spesso l'Italia non trovi riflessi i propri interessi economico-industral-finanziari nelle leggi e nelle decisioni Ue, ma, al contrario, finisca regolarmente per subire quelli altrui con evidenti difficoltà poi a conformarvisi. La Commisione Ue è formata da 28 commissari, uno per ciascun Paese dell'Unione: ogni commissario ha un gabinetto di 7 persone. Tradizionalmente i capi gabinetto, che sono 28, hanno un potere equivalente quando non superiore a quello dei direttori generali: non a caso fino a poco tempo fa sono stati in maggioranza di nazionalità inglese. Ora però quella maggioranza è diventata tedesca. Nella Commissione Barroso di italiano non c'è mai stato un solo capo di gabinetto. Ci sono stati soltanto due vice, che oggi si sono ridotti a uno, Nicola De Michelis, che lavora con il commissario ai Fondi regionali. Valentina Superti ha lasciato il gabinetto Tajani per diventare direttore all'Impresa. Quello dei direttori, ne abbiamo 25 come gli inglesi, contro i 29 di tedeschi e francesi, è l'unico livello nel quale il confronto con gli altri grandi non ci vede macroscopicamente perdenti.

Se nelle strutture apicali di Consiglio europeo ed Europarlamento, a loro volta dominate dai tedeschi tramite (ma non solo) i due rispettivi segretari generali, non brilliamo ma nemmeno ci difendiamo male, la nostra debolezza emerge di nuovo quando si guarda al Servizio diplomatico europeo, il Siae. Escludendo Stefano Manservisi che guida la mega-delegazione Ue in Turchia, Fernando Gentilini responsabile dei Balcani e Astuto dell'Asia, incarichi di rilievo, siamo assenti dal corporate board, la struttura di comando del servizio. Miozzo, responsabile del centro di crisi, ha di fatto un ruolo piuttosto marginale. Abbiamo ambasciatori in Australia, Tanzania e Congo, non certo a New York, Mosca o Pechino. Abbiamo perso la sede di Tirana e quella Onu a Ginevra: Mariangela Zappia che l'occupava è stata promossa ambasciatore italiano alla Nato.

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