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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2014 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 28 luglio 2014 alle ore 08:47.

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La riforma contributiva, in vigore dal 1° gennaio 1996,
si concesse tempi di attuazione molto lunghi, esentando i lavoratori "senior", con anzianità contributive di almeno 18 anni. Ciò spiega perché la componente contributiva della spesa è tuttora trascurabile.
E spiega anche il generale disinteresse per le malformazioni congenite che differenziano il contributivo italiano dal "modello scandinavo", internazionalmente riconosciuto come prototipo eccellente. Lo scenario è cambiato dopo che la riforma Fornero ha cancellato il privilegio dei senior: dal 2012 i contributi di tutti i lavoratori generano pensioni, o quote, contributive.

La riforma ha anche ripristinato la flessibilità di pensionamento, fra 63 anni e 3 mesi e 70 anni e 3 mesi, che il governo Dini aveva reclamizzato per attrarre il Paese verso la scelta contributiva, ma che si era poi perduta con gli interventi peggiorativi degli anni 2000.
Le malformazioni del sistema, però, restano così tante da non trovare spazio in un articolo. Accennerò a due soltanto. La prima riguarda l'aggiornamento dei coefficienti che nel modello scandinavo, dove non esiste la pensione d'anzianità e si può andare in pensione fra 60 e 67 anni, è regolato dal protocollo seguente: 1) in ogni anno solare entrano in vigore nuovi coefficienti riservati alla coorte che compie 60 anni nello stesso anno; 2) i medesimi non sono retroattivi, nel senso che le coorti precedenti mantengono il diritto ai coefficienti loro assegnati in passato con analoga procedura.

In ogni momento è quindi in vigore una matrice di coefficienti, ciascuna riga della quale è intestata a una delle coorti in età di pensione. Il protocollo è corretto perché i coefficienti devono dipendere dalla longevità e quest'ultima dipende dalla coorte di appartenenza (anno di nascita).
I limiti dei coefficienti retroattivi. Il meccanismo italiano, che è retroattivo e, a regime, sarà biennale, produce inconvenienti di tre tipi.
In primo luogo, espropria i lavoratori di un diritto maturato: dopo l'aggiornamento, i contributi versati prima possono generare pensione in misura inferiore. L'esproprio collide con l'orientamento costante della Corte Costituzionale a tutelare i diritti acquisiti.

In secondo luogo, la retroattività impedisce ai lavoratori di programmare il futuro con certezza. Infatti, vanifica, in misura sconosciuta ex ante, la scelta di accrescere la pensione proseguendo l'attività lavorativa oltre la maturazione del diritto. Potrebbe perfino produrre effetti opposti se, con crescite rapide della sopravvivenza, il coefficiente applicabile dovesse percentualmente ridursi più di quanto il montante contributivo possa aumentare. Allora è probabile che i lavoratori vogliano evitare il rischio traducendo la vigilia di ogni aggiornamento in un formidabile esodo di massa.

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