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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2014 alle ore 14:32.
L'ultima modifica è del 17 agosto 2014 alle ore 15:23.

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In particolare, il mercato del lavoro è una grave fonte di preoccupazione per le famiglie (a giugno il tasso di disoccupazione era il 12,3%, in calo rispetto a maggio ma in forte aumento rispetto a un anno prima). Inoltre, l'andamento dei prezzi è a un passo dalla deflazione, il che fa salire il peso del debito, e può indurre a rinviare la spesa nell'aspettativa che i prezzi futuri siano ancora più bassi. Infine, la recente incertezza geopolitica ha provocato un arresto della crescita in Germania e in altri Paesi dell'area euro; e purtroppo non si tratta di fenomeni transitori.

Se questo è il quadro, cosa può fare la politica economica nazionale per uscire dalla recessione? Anche se oggi il problema principale è la carenza di domanda aggregata, è comunque urgente realizzare riforme dal lato dell'offerta. Non è un paradosso, è la realtà della moneta unica. Gli strumenti classici di sostegno alla domanda aggregata sono in mano alle autorità europee, che non li stanno usando in modo adeguato. Il loro atteggiamento refrattario riflette anche il timore che i Paesi del Sud Europa (e l'Italia in particolare) non attuino le riforme necessarie a rendere più competitive le loro economie. Sta a noi non offrire alibi.

La riforma più urgente riguarda il mercato del lavoro. Due aspetti sono prioritari: lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili; e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti, secondo lo schema del contratto a tutele progressive nella versione di Pietro Ichino. Riforme innovative del mercato del lavoro non servono solo ad aumentare la nostra capacità di persuasione in Europa, ma sono indispensabili anche per riacquistare competitività. È anche grazie a queste riforme se in Spagna occupazione e produzione stanno tornando a crescere.

Un secondo provvedimento urgente per riacquistare competitività è la svalutazione fiscale. Questo intervento è stato ignorato da tutti i governi che si sono succeduti dal 2011 a oggi, ma è suggerito dall'esperienza dei Paesi emergenti. Quando un Paese è colpito da un sudden stop, la prima cosa che fa è svalutare il cambio. La svalutazione sostiene la domanda aggregata attraverso il canale estero, e, rendendo il Paese più competitivo, facilita il rientro dei capitali dall'estero. Naturalmente l'Italia non può svalutare senza uscire dall'euro. Tuttavia, è possibile riprodurre gran parte degli effetti economici di una svalutazione con gli strumenti di politica fiscale.

Il modo per farlo è tagliare i contributi sociali pagati dalle imprese, coprendo la perdita di gettito con l'aumento dell'Iva e riduzioni della spesa. Il gettito Iva può essere aumentato con accorpamenti delle aliquote più basse. Per realizzare una svalutazione fiscale, i tagli di spesa dovrebbero concentrarsi innanzitutto sui trasferimenti e sussidi ai trasporti locali e ferroviari e ad altri servizi, con corrispondenti aumenti di tariffe. Per evitare effetti regressivi, la manovra andrebbe integrata da un aumento delle detrazioni fiscali sui redditi più bassi. Un intervento di questo tipo allontanerebbe il rischio di deflazione e faciliterebbe la stabilizzazione del debito.

L'evidenza empirica internazionale mostra che eventuali effetti depressivi sulla domanda interna sarebbero più che compensati dalla maggiore domanda estera. Queste sono le priorità a cui dovrebbe ispirarsi la strategia di politica economica, per far uscire l'Italia da un'interminabile recessione. Avrà il governo la lungimiranza per imboccare questa strada? E se lo facesse, troverebbe in Parlamento il consenso per proseguire? Non è detto che la risposta a entrambe queste domande sia positiva. Ma non illudiamoci che vi siano molte altre alternative. Sicuramente non lo è aspettare, sperando che le cose migliorino da sole.

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