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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2014 alle ore 10:36.
L'ultima modifica è del 21 agosto 2014 alle ore 07:41.

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Se l'Occidente pensa di fermare il Califfato (Isis) con i raid aerei e gli aiuti militari ai peshmerga curdi si sbaglia. Nel cuore del Medio Oriente c'è un doppio fronte politico e militare denso di implicazioni: oltre all'Iraq, è la Siria il nodo strategico. Lo dimostra in maniera atroce la decapitazione, come rappresaglia ai raid Usa, del giovane reporter americano James Foley rapito dall'Isis nel 2012. Se non si sconfigge qui lo Stato Islamico di Abu Bakr Baghdadi, sarà assai complicato fermarlo anche in Iraq.

È giusto volare in missione a Baghdad ed Erbil come ha fatto il presidente del Consiglio Renzi ed è giusto rivendicare il ruolo per l'Europa, ma il vero coraggio la comunità internazionale lo dimostrerà imboccando la via di Damasco. Per farlo deve però sollevare il velo dell'ipocrisia che maschera una politica fallimentare.

La Siria è il santuario del Califfato di Abu Bakr Baghdadi. Controlla un terzo del territorio e avanza verso Aleppo conquistando i villaggi alla frontiera con la Turchia, Paese membro della Nato che ospita quasi un milione di quattro milioni di profughi siriani. Anche se è costretto ad arretrare in Iraq, il Califfato conta sulla retrovia siriana dove ritirarsi e controattaccare al momento opportuno.

Come sappiamo da tempo in Siria si sta combattendo un conflitto interno contro Bashar Assad ma anche una guerra per procura tra gli alleati del regime, l'Iran e gli sciiti libanesi Hezbollah, e l'opposizione islamica, sostenuta dalle monarchie del Golfo – Arabia Saudita in testa – con l'appoggio attivo di altre potenze sunnite con la Turchia.

Se si vuole salvare la Siria ma anche l'Iraq, la guerra tra mezzaluna sciita e mezzaluna sunnita deve fermarsi. Quello in atto è un conflitto all'interno dell'Islam che si è aperto con la rivoluzione iraniana di Khomeini nel 1979, quando l'anno seguente Saddam Hussein attaccò Teheran con il beneplacito dell'Occidente e gli aiuti finanziari delle potenze del Golfo. Il Raìs allora uccise con i gas 5mila curdi ma nessuno, neppure l'Onu, pronunciò una parola di condanna. La guerra finì con un milione di morti senza mutare di un centimetro le frontiere sullo Shatt el Arab.

L'intervento americano in Iraq nel 2003 è stata la prosecuzione di quel conflitto che ha cambiato i rapporti di forza in Iraq emarginando la minoranza sunnita, che aveva detenuto per decenni le leve del potere, a favore della maggioranza sciita.

In Siria il mondo sunnita ha tentato di prendersi la rivincita su quella sconfitta e dopo il ritiro americano del 2011, frettolosamente voluto da Obama, ha tenuto aperto il fronte interno all'Iraq dove il governo sciita di Nouri al Maliki ha distrutto anche quel poco di buono costruito dal generale americano Petraeus coinvolgendo le tribù sunnite nella lotta contro Al Qaeda.

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