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07 settembre 2014

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Giovannini: chiamato da Ban Ki-moon per la data-revolution dell'Onu

CERNOBBIO - Una vera data revolution. Per non essere né vittime (inconsapevoli) della marea di numeri che ogni giorno ci sommerge, né artefici (involontari) del caos generato dalla loro non sempre eccelsa (e non sempre controllata) qualità. A volerla, il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon. A guidarla, un cinese e un italiano. Il cinese è Robin Li, il fondatore di Baidu, il motore di ricerca cinese. L'italiano è Enrico Giovannini, dal 2001 al 2009 direttore delle statistiche dell'Ocse, dal 2009 al 2013 presidente dell'Istat e poi, fino al febbraio 2014, ministro del Lavoro del governo Letta. La strana coppia – l'uomo che per Wikipedia è il più ricco della Cina e il professore di statistica economica di Tor Vergata a Roma – condivide la presidenza di un comitato di una ventina di esperti. Ne parliamo con l'esponente italiano al workshop Ambrosetti di Villa d'Este.

Professor Giovannini, perché ha una valenza politica, oltre che naturalmente scientifica, la data revolution che vi chiede l'Onu?
Nei numeri che circolano ci sono troppe disomogeneità. Troppi disallineamenti. Forti ritardi nella loro produzione. Troppe aporie. Il tutto nasce da una esigenza pratica. Quindici anni fa l'Onu ha fissato degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Il monitoraggio non ha funzionato come si sperava. Perché i sistemi di rilevazione e di produzione dei dati nei Paesi in via di sviluppo non sono stati in grado di fornire le informazioni. La sfida è quella di sviluppare un sistema mondiale efficiente per monitorare in continuazione se i Paesi si muovono verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile (relativi all'economia, alla società, all'ambiente, alla pace, ecc.) che l'Onu definirà l'anno prossimo. Senza dati affidabili questa operazione volta a costruire, per la prima volta, un'agenda politica unitaria a livello globale rischia di non funzionare.

Che cosa è cambiato rispetto a una quindicina di anni fa?
Oggi c'è una maggiore accumulazione di conoscenza tecnologica e scientifica. A parte la diffusione di internet, esistono i satelliti e i sensori fisici. E si è diffusa la cultura dei big data. Si sono, così, create le condizioni perché ai dati di provenienza pubblica, come quelli di provenienza privata – penso alle Ong – , si possano assicurare i giusti standard di qualità e di indipendenza.

Oggi la nostra vita quotidiana è subissata dai dati. Il profluvio di informazioni condiziona i mercati, influenza la vita politica, incide sulla psicologia collettiva. Questo capita, tutti i giorni, in Italia e in Europa. Come si può migliorarne la qualità?
Il problema è noto e io stesso lo avevo posto nel 1999.. Le banche centrali sono parte di un sistema coordinato e coeso: collaborano, condividono i sistemi informatici, si scambiano i microdati. Questo, invece, non capita agli istituti nazionali di statistica. Non si possono scambiare i dati. Hanno governance diverse. Si rifiutano di sviluppare sistemi informatici comuni. Sono sottoposti a leggi nazionali che prevalgono su ogni ipotesi di reale integrazione. Da due anni si sta negoziando una nuova legge che, a livello europeo, permetta di superare alcuni di questi problemi, ma senza la creazione di un sistema statistico europeo simile a quello delle banche centrali non si riuscirà a fare il salto necessario.

Professore, in molti ricordano ancora che cosa è successo con l'istituto nazionale di statistica della Grecia.
Nel 2001 vennero truccati i conti pubblici per entrare in Europa. Pochi anni dopo l'Eurostat fu munito di poteri di controllo che, però, nella persistenza di questa frammentazione non riuscì a evitare altri "errori": tanto che, nel 2009, la crisi dell'eurozona venne proprio originata dai conti pubblici falsi della Grecia. Per evitare che questo riaccada, bisogna garantire regole omogenee per rendere gli istituti statistici nazionali veramente indipendenti dal governo, fondi sufficienti perché essi possano avere una programmazione di lungo periodo e, tutti insieme, possano procedere a realizzare una statistica europea efficiente e in grado di fornire i dati richiesti dagli utenti.

La pioggia di statistica non crea instabilità?
No, non lo credo. Semmai, a creare instabilità, è il punto di vista adottato da chi li deve interpretare. In particolare, il problema è la tendenza degli analisti e degli operatori di mercato, come anche dei politici, a indossare sempre le lenti del breve termine. Ma, se permette, questa è tutta un'altra questione. Non spariamo sugli statistici. E mettiamoli in condizione di fare bene, anzi meglio, il loro lavoro. Le imprese investono ingenti fondi per sviluppare e usare i dati, mentre in molti Paesi i fondi per la statistica vengono ridotti: è evidente che il settore privato ha capito bene cosa vuol dire vivere nella società dell'informazione, il settore pubblico no.

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