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Questo articolo è stato pubblicato il 01 novembre 2014 alle ore 09:47.
L'ultima modifica è del 01 novembre 2014 alle ore 10:19.

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In ogni caso, qualunque investitore intervenga, l'Ilva appare oggi un gigante in catalessi. L'anno scorso ha prodotto 5,8 milioni di tonnellate di acciaio, in calo del 31% rispetto al 2012: nel 2006 erano state 9,6 milioni. In questo periodo, l'impianto produce circa 18.500 tonnellate al giorno. Il break-even industriale è fissato a 21.500 tonnellate al giorno. Ogni mille tonnellate quotidiane in meno provocano una perdita potenziale di 17 milioni di euro al mese. Dal punto di vista complessivo, le perdite mensili sul piano dell'Ebitda sono comprese fra i 30 e i 35 milioni.

Dopo la versione "legalitaria" e istituzionale della presidenza di Bruno Ferrante (quando i Riva avevano ancora la gestione), c'è stato il commissariamento - interpretato con "pieni poteri" - di Enrico Bondi, che voleva trasformare radicalmente l'impianto con la tecnologia del preridotto. Adesso, Gnudi osserva una linea di gestione più "minimal-efficientista" della società, in vista della cessione a un nuovo azionista.
Nonostante tutti questi sforzi, non sarà semplice mutare un profilo modellato da due anni e mezzo di traumi violenti. Per capire a che punto si sia arrivati, basta osservare la mera situazione del mercato nazionale. Secondo l'analisi dell'ufficio studi di Siderweb, l'Ilva ha perso non poche posizioni, assecondando una tendenza avviatasi con la recessione del 2008. Sul totale dell'acciaio, le quote riferibili a Ilva sono scese dal 32,4% del 2008 al 25,7% del 2009, dal 30,5% del 2010 al 31,1% del 2011, dal 29,7% del 2012 al 26,8% del 2013. Dunque fra il 2011, ultimo anno prima dell'intervento della magistratura, e il 2013, anno in cui i giudici hanno ordinato il sequestro di 8,1 miliardi di beni del gruppo Riva e in cui il Governo Letta ha introdotto il commissariamento, l'impresa ha perso il 4,3 per cento del mercato italiano. Il crollo dell'Ilva è più evidente nei laminati piani a caldo. Nel 2008 la società aveva il 68,5% del mercato italiano. Nel 2009, il 56 per cento. Nel 2010, il 62,2 per cento. Nel 2011, il 61,5 per cento. Nel 2012, il 58,2 per cento. Nel 2013, il 53,5 per cento. Dal 2011 al 2013, l'Ilva ha perso otto punti.

Tutti - dai manager di Arcelor Mittal provenienti da Londra e dal Lussemburgo al Cavalier Arvedi di Cremona - all'arrivo a Taranto hanno trovato una acciaieria - la maggiore d'Europa - in apparenti buone condizioni. Una struttura che, nonostante il terremoto giudiziario e la grandinata finanziario-industriale, appare intatta nelle sue fondamenta materiali. Tutti, però, sanno che il perno della siderurgia italiana è corroso dall'interno dall'afasia commerciale e dal virus della cattiva finanza d'impresa. Ripatrimonializzazione. Riqualificazione del cash-flow. Riposizionamento sul mercato. Recupero delle quote di mercato perse a favore dei concorrenti stranieri. Chiunque diventerà il proprietario di Taranto dovrà affrontare un turn-around maledettamente complicato, ma vitale per gli equilibri della manifattura italiana, che ha nell'Ilva un suo elemento indispensabile.

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