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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2014 alle ore 08:50.
L'ultima modifica è del 20 dicembre 2014 alle ore 09:44.

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Con l’approvazione definitiva del cosiddetto “Jobs Act” si apre una fase nuova non solo nella politica economica del governo Renzi, ma anche nel dibattito economico tra l’Italia e l’Europa. a Draghi alla Merkel, da Junker a Moskovici tutti parlano della necessità di “fare le riforme” in Italia.

Ma il contenuto di queste “riforme” è tanto elusivo quanto la precedente “Agenda Monti”. A parte una maggiore flessibilità del lavoro, che dovrebbe essere stata raggiunta con il Jobs Act, quali sono queste riforme necessarie?

Che mi risulti nessuna di queste autorità politiche si è addentrato in una lista dettagliata. Per questo ho deciso di provare a delinearle in una serie di articoli, a cominciare da questo. Non essendo un giurista né un politologo non mi addentrerò sulle riforme costituzionali. Non perché non siano potenzialmente importanti, ma perché il loro impatto economico è mediato da complicati equilibri politici, su cui non sono competente. Mi limiterò quindi a quelle riforme che possano avere un effetto immediato nel rendere l'Italia un luogo più attraente per fare business, sia per gli investitori stranieri che per quelli italiani.

Primum non nocere. Potrà sembrare strano ma la prima cosa che il Governo Renzi deve fare per ricreare fiducia nel nostro paese è non fare danni. Uno dei fattori più importanti nelle decisioni di investimento è la certezza del diritto, quella che gli inglesi chiamano rule of law. Essenzialmente la rule of law consiste in tre aspetti: un corpo di leggi che tuteli i diritti di proprietà in modo chiaro, un'applicazione di queste leggi che segua il principio della imparzialità (l'opposto del clientelismo nostrano) e un'amministrazione della giustizia rapida ed imparziale. In questo articolo mi limiterò al primo punto, lasciando gli altri due ad articoli successivi. Si tratta solo di un ordine espositivo, non di importanza. Tutti e tre questi aspetti sono egualmente importanti perché contribuiscono allo stesso fine: la certezza del diritto e delle regole.

Paradossalmente questo primo punto è anche il più facile da realizzare. Non necessita di maggioranza parlamentare, non incontra l'opposizione sindacale, non può venire bloccato dalle lungaggini burocratiche: basta non proporre leggi e non approvare decreti che minino i diritti di proprietà degli investitori o che siano (anche solo percepiti) come ad aziendam, perché questo non farebbe altro che rafforzare l'immagine di clientelismo del nostro Paese. Proprio perché così facile la realizzare, questa è anche la cartina di tornasole di un governo per i mercati internazionali. Gli investitori fanno fatica a capire di chi sia la colpa delle riforme non fatte, ma sono pronti ad attribuire la responsabilità al Governo per ciò che fa di dannoso.

Nonostante la facilità del compito, il Governo Renzi non sembra passare questo test. In agosto, fece approvare la più grossa riforma di corporate governance degli ultimi 15 anni, introducendo il voto multiplo e le loyalty shares. A suo tempo scrissi contro questa riforma, ma indipendentemente dal giudizio di merito quello che importa è l'arbitrarietà del processo. Questo cambiamento fu inserito all'interno di un decreto sulla competitività (DL 91) che andava dagli incentivi sulle rinnovabili alla disciplina della mozzarella di bufala. Non solo, si violava il codice civile dando alle società quotate un periodo fino al 31 gennaio per approvare questa modifica statutaria con voto a maggioranza semplice dell'assemblea, invece che con una maggioranza qualificata, come per tutte le riforme statutarie. Questa eccezione non aveva alcuna logica giuridica o economica. Se fosse stato giusto introdurre le loyalty shares con maggioranza semplice, perché non rendere questa norma permanente? Se non la si vuole fare permanente, perché la si vuole in forma transitoria, aumentando l'incertezza del diritto?

Molti commentatori avevano interpretato questa norma come un desiderio del Governo di mantenere il controllo sulle grandi imprese a partecipazione statale anche dopo ulteriori vendite di quote azionarie: in altre parole lo stato viola la rule of law per favorire se stesso. Purtroppo la realtà è ancora peggiore. Oggi il governo farebbe fatica a far approvare nelle società quotate controllate queste modifiche statutarie anche a maggioranza semplice, come ha fatto fatica (e in alcuni casi fallito) a far approvare la clausola di onorabilità. L'interesse per questa norma viene dalle Fondazioni Bancarie, che vogliono mantenere il controllo su Unicredit e Banca Intesa, e da Mediobanca che vuole mantenere il controllo su Generali. Lo stato, quindi, viola la rule of law non per favorire se stesso, ma per favorire dei piccoli gruppi di potere: alla faccia del principio di imparzialità.

La norma era stata introdotta così in fretta che non si era pensato a come potesse interagire con gli obblighi di Offerta Pubblica di Acquisto, peraltro modificati dallo stesso decreto. Per questo motivo la Consob non è riuscita a far approvare in tempi brevi il regolamento. Non potendo sfruttare la norma transitoria, le lobby sono ripartite alla carica, con una richiesta di estensione della stessa in discussione ora al Senato. Se le norme temporanee continuano a venire estese, dove va la certezza del diritto?

Gli investitori istituzionali non amano le loyalty shares perché anche quando detengono azioni per un lungo periodo (come Blackrock) non possono vincolare le azioni al fine di ottenere il voto maggiorato. Per questo avevano già commentato molto negativamente il DL91. Questa avversione è anche documentata in una survey di 445 investitori istituzionali di tutto il mondo: per le azioni di società con voto non proporzionale (come le loyalty shares), l' 80% degli investitori si aspetta uno sconto, stimato tra il 10 e il 30%.

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