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Pensioni, la Consulta e l’illusione di «diritti» senza fine

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PREVIDENZA E CONTI PUBBLICI

Pensioni, la Consulta e l’illusione di «diritti» senza fine

Le sentenze della Corte costituzionale vanno accolte sempre con grande rispetto. E l’ultima pronuncia che boccia la tassa sul fumo elettronico ha molte ragioni al suo arco. Ma è difficile non condividere le perplessità arrivate da più parti sulla sentenza spacca-conti che ha spazzato via lo stop all’indicizzazione delle pensioni. Se in quell’occasione gli stessi giudici si sono divisi sei a sei sulla decisione, evidentemente non c’era un diritto così assoluto da tutelare. E le ragioni che imponevano alla Corte la bocciatura di una norma che vale tra i 13 e i 19 miliardi non dovevano essere così inderogabili da mettere a rischio la tenuta del bilancio pubblico, come ancora ieri hanno osservato gli analisti di Standard & Poor’s.

Sembra quasi che una parte dei giudici costituzionali viva in mondo tutto suo, a prescindere dalla realtà, dai vincoli europei in cui è inserita l’Italia, dai cambiamenti strutturali che nell’ultimo decennio sta affrontando il Paese. Un problema che non riguarda certo solo la Corte costituzionale, ma anche le élite politiche e sindacali, e i tanti che difendono rendite di posizione anacronistiche.

In Italia troppe tutele vengono equiparate a diritti assoluti, troppe garanzie sono difese come diritti intangibili. Andrebbero invece trattate semplicemente per quello che sono: tutele e garanzie che sono utili, vanno benissimo, ma solo fino a quando c’è una compatibilità economica che le renda possibili.

Quello delle pensioni è il caso più eclatante. Diritti “acquisiti” si dice. Ma in che epoca? Quando con il babyboom la popolazione passava dai 45 milioni del dopoguerra ai 57 milioni del 2000? Quando gli occupati crescevano a tempo indeterminato e con loro aumentava progressivamente il monte contributivo? Quando la speranza di vita si fermava a 69 anni (nel ’71) e non a 82 come oggi? Quelle cifre rendevano “sostenibile” un sistema pensionistico che oggi non è più sostenibile e rendevano “sostenibili” trattamenti che oggi non sono più sostenibili. Trattamenti, tutele, appunto, non diritti.

Trattamenti da rivedere e aggiornare continuamente al cambio del contesto economico. Altrimenti i diritti presunti di alcuni diventano la disperazione di altri, condannati a non trovare lavoro e a non avere alcuna pensione.

Ma non è certo solo un problema di pensioni. Dopo anni di Pil in continua ascesa, l’Italia negli anni 70 si è potuta dare il servizio sanitario pubblico più universale dell’Occidente. Un fiore all’occhiello (per molti versi, non tutti) del nostro welfare. Ma non più sostenibile nella sua universalità con il saldo di entrate e uscite che il settore pubblico oggi si ritrova. A meno di non affossare definitivamente il sistema produttivo con un livello di tassazione inaccettabile. Il nuovo contesto economico, evidentemente, impone anche qui di superare la teoria dei diritti intoccabili e di avviare una serena discussione sulla riduzione del perimetro dello Stato, aprendo a forme di copertura assicurativa per le fasce di reddito più elevate.

Anche il dibattito sulla scuola, a ben vedere, ha a che fare con tutto questo. Perché davanti alle nuove domande cui dovrebbe rispondere il mondo dell’istruzione, si pretende di difendere un vecchio modo di lavorare, senza valutazione e riconoscimento del merito, facendosi scudo di presunti diritti, diritti di alcuni (la parte più sindacalizzata degli insegnanti) a discapito di altri (gli studenti). Dimenticando, peraltro, completamente i doveri, come quello di non fissare uno sciopero nel giorno dei test di valutazione Invalsi o di non bloccare gli scrutini.

È un problema culturale che va ben oltre una sentenza, sbagliata, della Corte costituzionale. Ha a che fare con l’illusione italiana delle aspettative crescenti, con l’equivoco dell’espansione continua e illimitata di quelle tutele che erroneamente chiamiamo diritti o, peggio, diritti acquisiti. Una vera e propria ideologia cresciuta quando l’Italia, Paese nato povero, si è progressivamente arricchita negli anni del dopoguerra. Sembrava un’espansione senza fine, alla quale era giusto associare un’espansione senza limiti delle tutele e dei trattamenti economici.

Poi quella crescita si è bloccata. Ma una parte importante delle élite politiche, sindacali, culturali, ma anche della sua popolazione, ha preferito non vedere e vivere nell’illusione dell’espansione sempre e comunque. Si sono così respinte le riforme e, con esse, ci si è rifiutati di fare i conti con la realtà. La sentenza della Corte costituzionale sull’indicizzazione delle pensioni è anche questo.

.@FabrizioForquet

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