Da 45esimi a 14esimi nel confronto sull’attrattività dei Paesi è un balzo niente male. È quello che compie l’Italia se da uno dei ranking internazionali più controversi per la metodologia utilizzata, il Doing business report, si passa a un nuovo strumento, il Global attractiveness index, che viene lanciato oggi a Cernobbio da The European House-Ambrosetti.
Se i ranking internazionali sono sempre di più uno strumento che orienta le scelte di investimento nella competizione globale, la loro credibilità diventa un obiettivo, potremmo dire, di politica industriale. Di qui il progetto di un nuovo Indice, più affidabile, che possa supportare l’ambizione di recuperare ulteriore terreno nell’attrazione degli investimenti diretti esteri, di cui l’Italia a livello di stock detiene solo l’1,5%, circa 374 miliardi, la metà di Germania, Francia, e Spagna.
Il nuovo indice, elaborato da Teha in collaborazione con le multinazionali Abb, Toyota e Unilever, analizza 144 Paesi espressione del 97,9% del Pil mondiale. L’Italia si piazza quattordicesima, subito dietro a Hong Kong e davanti all’Austria, quinta tra i Paesi europei alle spalle di Francia, Olanda, Regno Unito e Germania. Quest’ultima è seconda, mentre Usa e Giappone, primi e terzo, completano il podio. Gambia e Mauritania nelle ultime due posizioni.
Enrico Giovannini, uno dei due advisor del progetto, insieme a Ferruccio de Bortoli, spiega che «il 14° posto è una fotografia statica, ma il ranking include anche un Indice di dinamicità, che misura la variazione in un triennio, e l’indice di sostenibilità che ci dice quanto il Paese può essere vulnerabile a eventuali shock esterni che ne modifichino il posizionamento». Ad esempio, grandi potenze economiche come la Cina e l’India, rispettivamente decima e trentaquattresima, hanno un livello di sostenibilità critica. «La dinamicità dell’Indice – dice Giovannini - e una selezione di indicatori di prestazione (Kpi) più oggettiva rispetto a diversi ranking internazionali sono state condivise in sede di elaborazione con il Joint research center della Commissione europea».
È finita allora l’era dell’Italia dietro al Burkina Faso o al Kazakistan di turno? Probabilmente sì, di certo il governo, secondo gli autori del nuovo Indice, è chiamato a fare uno sforzo per sostenere e promuovere l’immagine pro business del Paese. Ci sono concorrenti della competizione globale, come Singapore che puntualmente svetta nei grandi confronti, che hanno dedicato un “Mr Ranking” al controllo della qualità delle risposte raccolte dagli organismi internazionali o a progetti mirati di miglioramento dei singoli Kpi. Perché proprio qui si concentra il problema, come sono stati finora costruiti i ranking.
Valerio De Molli, managing partner di Ambrosetti, sintetizza i principali limiti delle classifiche internazionali oggi più di moda: eccessivo uso di questionari perlopiù indirizzati a soggetti non rappresentativi (ad esempio le imprese sono solo il 5% del campione usato per il Doing Business), istituzioni che si citano a vicenda, confusione tra dotazioni dei Paesi in valore assoluto e loro effettivo funzionamento. Di qui rappresentazioni probabilmente distorte, che pongono l’Italia al 45° posto del Doing Business della Banca Mondiale, dietro alle Mauritius, al 43° del Global competitiveness report del Wef, dietro all’Azerbaigian, al 77° per libertà di stampa, dietro a El Salvador, o al 61° del Trasparency index, vicini a Lesotho e Senegal.
Il ranking Ambrosetti analizza il capitale fisico, umano, sociale e naturale di 144 Paesi attraverso 50 Kpi suddivisi in quattro grandi “attributi di attrattività”: apertura (export, turisti stranieri, numero di migranti eccetera), innovazione (dagli utenti internet alle pubblicazioni scientifiche), dotazione (dal Pil e gli investimenti ai laureati), efficienza (produttività, total tax rate, giustizia). L’Italia procede abbastanza bene nei primi tre campi, mentre mostra ancora evidenti criticità nell’efficienza del sistema Paese, in cui è solo 50esima su 144. Per questo il 14esimo posto complessivo non deve appagare. Gli autori dell’Indice suggeriscono una serie di “cantieri di lavoro” per fare meglio: accelerare l’attuazione della riforma della Pa, agire sui tempi della giustizia, varare un Piano strategico della logistica, rafforzare l’integrazione ricerca-industria, potenziare il sistema di formazione e riqualificazione della forza lavoro, supportare la digitalizzazione delle imprese.
Cantieri da chiudere rapidamente, perché la posta in palio è sempre più alta. La competizione tra territori per intercettare quote di investimenti esteri si è allargata, coinvolgendo aree che fino a qualche decennio fa erano fuori dai giochi. Senza contare gli effetti che, in termini di diversificazione dei flussi di capitali, possono essere correlati all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. «I ranking internazionali hanno un’elevata capacità di influenzare scelte di localizzazione agendo sulla percezione degli investitori – sintetizza Giovannini – Questa correlazione diretta schiude enormi potenziali per il nostro Paese: secondo il nostro indice l’Italia è 14esima mentre è solo 25esima per flussi di investimenti diretti esteri attratti. Si può fare davvero molto di più».
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