Il “tesoro dei Riva” non è ancora in viaggio verso Taranto ma ormai è solo questione di giorni. L'accordo per il rientro dei fondi, stimati tra 1,3 e 1,4 miliardi di euro, viene confermato da ambienti vicini al gruppo Riva anche se fonti giudiziarie milanesi affermano che per la firma formale dell'intesa mancano ancora alcuni tasselli e parlano di una cifra di poco inferiore a 1,2 miliardi di euro, per la precisione 1,173 miliardi. Comunque vada, la storia del “tesoretto” che dovrebbe sancire il definitivo risanamento ambientale della più grande acciaieria d'Europa è la storia di un cammino tormentato, scandito da colpi di scena che negli ultimi tre anni si sono susseguiti su più fronti.
Lo slalom nei paradisi fiscali
I soldi furono scoperti dalla Guardia di Finanza e dalla procura di Milano che indagavano nel 2013 su alcune operazioni sospette del gruppo siderurgico. Depositati in Svizzera e controllati da alcuni trust domiciliati nel paradiso fiscale di Jersey, una delle Isole del Canale appartenenti alla Regina d'Inghilterra, i fondi sequestrati erano stati bloccati in Svizzera un anno fa dal tribunale di Bellinzona su richiesta di alcuni eredi di Emilio Riva (morto nel 2014). Da allora sono cominciati i negoziati sfociati nell'accordo annunciato dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Il rimpatrio dei soldi - fanno notare fonti giudiziarie - richiede l'intervento di molti attori. Occorrerà il via libera formale delle autorità giudiziarie svizzere, un
pronunciamento dell'Alta Corte di Jersey, visto che i fondi sono formalmente nella disponibilità della Ubs Trustee di Saint Helier, che amministra i quattro trust proprietari dei beni. C'è poi un ruolo laterale della procura di Milano, che ha chiesto il fallimento della ex capogruppo Riva Fire e di altre società della galassia siderurgica, e del Tribunale fallimentare di Milano, che dovrà pronunciarsi su questa richiesta. A Taranto, poi, c'è un processo in corso per disastro ambientale presso la Corte d'Assise. È chiaro che lo sblocco del “tesoretto” influenzerà i fronti giudiziari, che potrebbero concludersi con un patteggiamento.
La scoperta dei fondi
È il 23 maggio 2013 quando trapela la notizia che Emilio e Adriano Riva sono indagati dalla procura di Milano con l'ipotesi di reato di truffa ai danni dello stato e di trasferimento fraudolento di valori. Ad accusare i patron del gruppo siderurgico sono i sostituti procuratori Stefano Civardi e Mauro Clerici, che chiedono al gip Fabrizio D'Arcangelo il sequestro di 1,173 miliardi scoperti all'estero.
Nell'ordinanza di sequestro il gip usa parole durissime: i fondi – scrive – «costituiscono il provento dei delitti di appropriazione indebita continuata e aggravata» da parte degli indagati «ai danni della Fire Finanziara Spa (oggi Riva Fire, ndr), di truffa aggravata, di infedeltà patrimoniale e di false comunicazioni sociali, oltre che di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e di trasferimento fraudolento di valori». Con Emilio e Adriano Riva sono indagati anche due consulenti degli imprenditori: Franco Pozzi ed Emilio Gnech, entrambi partner dello studio Biscozzi Nobili di Milano, ed entrambi accusati di riciclaggio.
Nel mirino della procura di Milano ci sono in quei giorni tre operazioni societarie passate al setaccio dagli uomini della Guardia di Finanza. La prima, del dicembre 1995, riguarda la cessione di quote della società olandese Oak. La seconda è relativa alla vendita di una holding lussemburghese, la Stahlbeteiligungen Holding Sa, avvenuta nel maggio 1997. La terza riguarda invece la cessione dell'11,75% dell'Ilva Spa nel luglio 2003.
Le tre operazioni avevano permesso ai due fratelli - secondo la ricostruzione della procura - di generare una provvista complessiva di 1,39 miliardi di euro, dei quali 1,18 erano stati “rimpatriati giuridicamente” (il patrimonio era stato cioé regolarizzato ma era rimasto all'estero) con lo scudo fiscale del 2009 voluto da Tremonti.
«In tutte e tre le operazioni – scriveva il gip – il corrispettivo della cessione di partecipazioni societarie... veniva fatto lucrare da società veicolo allocate in paesi a fiscalità privilegiata e riconducibili ad Adriano ed Emilio Riva e, da ultimo, fatto confluire nei trust costituiti in un paese non collaborante nel contrasto al riciclaggio (il Jersey)».
Nel 2009 Adriano ed Emilio Riva avevano deciso di scudare i beni custoditi nei trust dell'isola di Jersey. Ma l'operazione, secondo la procura di Milano, non era stata realizzata nel rispetto della legge perché il vero settlor (cioé colui che aveva trasferito i beni) dei trust era Adriano Riva, che era cittadino canadese residente a Montecarlo, mentre nella dichiarazione presentata alle autorità fiscali italiane figurava il nome di Emilio. Secondo gli inquirenti, dunque, il condono fiscale non poteva essere richiesto.
I trust creati a beneficio della famiglia Riva (Orion, Sirius, Venus, Antares, Lucam, Minerva, Paella e Felgan) erano stati ideati, secondo i pm, esclusivamente per celare chi fosse il reale proprietario dei beni. Prima di conferirli ai trust, inoltre, i soldi erano stati ulteriormente schermati «per agevolarne il riciclaggio» e inseriti «fittiziamente» in quattro società delle isole Cayman: Jamuri Limited, Nebo Limited, Millicent Limited e Finia Limited.
La Guardia di Finanza aveva anche accertato che il reale proprietario del gruppo era Emilio Riva, in virtù di un patto di famiglia che gli consentiva di «decidere da solo sulle questioni di maggiore rilevanza per la società».
Il Master Trust di Jersey
A fine agosto 2013 emergono nuovi fondi della famiglia Riva collocati in trust esteri e gli inquirenti delineano meglio l'intricata catena di controllo del gruppo che possiede l'impianto dell'Ilva a Taranto. Fino a quel momento era noto che l'Ilva era controllata dalla Luxpack, una società con un capitale sociale di soli seimila dollari domiciliata a Curaçao, paradiso fiscale delle ex Antille Olandesi. Ma nell'agosto di tre anni fa i pm scoprono che la Luxpack è a sua volta posseduta da un trust con sede a Jersey, il Master Trust.
E la catena di controllo delle società non si fermava lì. Perché i beneficiari economici del Master Trust erano altri otto trust (tutti di Jersey) i cui beneficial owner erano i figli di Emilio e Adriano Riva. Insomma, la proprietà dell'Ilva (il pezzo più importante del gruppo siderurgico fondato dagli imprenditori milanesi) era schermata da sette società o trust collocati rispettivamente in Italia, Lussemburgo, Olanda, Curaçao e Jersey. Oltre a quelli nell'isola del Canale, gli investigatori avevano poi scoperto altri due trust, uno alle Bahamas e l'altro in Nuova Zelanda, entrambi riconducibili alla famiglia Riva.
La doccia fredda in Svizzera
Fino agli ultimi mesi del 2015 l'inchiesta va avanti senza scossoni e sembra che tutto proceda per il meglio. I fondi sono stati sequestrati e sono temporanemante depositati presso la Ubs in Svizzera in attesa di essere rimpatriati e utilizzati per il risanamento ambientale dell'Ilva. Ma il 25 novembre arriva, inattesa, la doccia fredda.
Il Tribunale penale federale di Bellinzona decide che quel “tesoretto” dovrà restare in Svizzera. I giudici elvetici, infatti, accolgono il ricorso presentato dalle figlie di Emilio e Adriano Riva con una sentenza di 8o pagine nella quale evidenziano «vizi particolarmente gravi» nella procedura seguita dalla procura del Cantone di Zurigo che, per conto dei magistrati italiani, chiedeva lo sblocco dei fondi.
I giudici, dunque, ribaltano la decisione che aveva autorizzato Ubs a trasferire i soldi in Italia nella disponibilità del Fondo unico della giustizia. Il Tribunale di Bellinzona spiega la sua decisione affermando che la vera motivazione dei magistrati italiani non è di natura penale ma finalizzata a raggiungere altri scopi, cioé la bonifica ambientale dell'Ilva di Taranto, mentre gli accordi di collaborazione giudiziaria con l'Italia non prevedono questa possibilità. Non solo. I giudici aggiungono che i fondi sequestrati sono solo «presumibilmente» e non «manifestamente» di origine criminale.
Gli indagati, insomma, potrebbero essere assolti alla fine del procedimento giudiziario «ma non esiste una dichiarazione di garanzia delle autorità italiane secondo la quale le persone perseguite, se dichiarate innocenti, non subirebbero nessun danno». I conti bancari sequestrati - scrivono i giudici - «rimangono bloccati sino a quando non vi è una decisione di confisca definitiva ed esecutiva in Italia». Il colpo è pesante. I soldi non tornano in Italia. Ma nel frattempo inizia una trattativa sotterranea, durata mesi, che porta finalmente all'accordo. E apre la strada al risanamento ambientale dell'Ilva.
Aggiornamento del 21 luglio 2021: con decreto del Gip di Milano del 3 aprile 2020, il procedimento nei confronti dei commercialisti Emilio Pozzi e di Emilio Ettore Gnech, oltre che degli altri indagati, è stato archiviato, per mancanza di elementi a sostegno dell’accusa.
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