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Anche Nino Santapaola, come Riina, vuole morire nel suo letto

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Il legale riaccende il dibattito sulla morte dignitosa

Anche Nino Santapaola, come Riina, vuole morire nel suo letto

Ancora un appello per la liberazione di un boss di Cosa nostra. Ancora un grido disperato affinché possa morire nel suo letto. Questa volta è l'avvocato Giuseppe Lipera, legale del boss Antonino Santapaola, 63 anni, a sollecitare pietà per il fratello del capomafia ergastolano Benedetto.

In rianimazione al San Paolo di Milano
Antonino Santapaola era detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Opera (Milano) ma per le sue condizioni di salute è stato ricoverato nell'Unità operativa complessa di Anestesia e rianimazione dell'ospedale San Paolo di Milano. Niente potrebbe dunque assicurare una cura maggiore del detenuto malato ma il suo avvocato sottolinea che questo «conferma tristemente e amaramente quanto fossero fondate le svariate istanze di libertà presentate invano dalla difesa, specialmente negli ultimi periodi, e che sono rimaste inevase e disattese». Secondo il penalista «siamo al tragico epilogo» di Antonino Santapaola «detenuto da 17 anni per reati commessi 40 anni fa», che, osserva, è «in reale e assoluto pericolo di vita». L'avvocato Lipera chiede al magistrato di sorveglianza di Milano l'emissione di «un provvedimento che sia conforme alla legge, alla giustizia e alla umana pietà» disponendone «l'immediata scarcerazione» o il «trasferimento a Catania nella casa della moglie, consentendogli di morire nel suo letto».

Un film già visto con Riina
Sembra un film già visto. Basta riavvolgere il nastro al 5 giugno 2017 quando la Corte di Cassazione (sentenza 27.766, relativa all'udienza del 22 marzo scorso) stabilì che il «diritto a morire dignitosamente» va assicurato a ogni detenuto.
Il soggetto era il carnefice Totò Riina, per il quale fermo restando lo «spessore criminale», andava verificato se potesse ancora considerarsi pericoloso vista l'età avanzata e le gravi condizioni di salute. La Cassazione sembrava così aprire al differimento della pena per il capo di Cosa Nostra, ottantaseienne e con diverse gravi patologie, detenuto nel carcere di Parma. Per la prima volta venne accolto il ricorso del difensore di Riina, che chiedeva il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare. La richiesta era stata respinta nel 2016 dal tribunale di sorveglianza di Bologna, che però, secondo la Cassazione, nel motivare il diniego aveva omesso «di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico».

Il tribunale non aveva ritenuto che vi fosse incompatibilità tra l'infermità fisica di Riina e la detenzione in carcere, visto che le sue patologie venivano monitorate e quando necessario si era ricorso al ricovero in ospedale a Parma. Ma la Cassazione sottolinea, a tale proposito, che il giudice deve verificare e motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un'afflizione di tale intensità» da andare oltre la «legittima esecuzione di una pena».

Va assicurato «diritto a morte dignitosa»
Il collegio ritiene che non emerga dalla decisione del giudice in che modo si è giunti a ritenere compatibile con il senso di umanità della pena «il mantenimento il carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa», che non riesce a stare seduto ed è esposto «in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili». La Cassazione ritiene di dover dissentire con l'ordinanza del tribunale, «dovendosi al contrario affermare l'esistenza di un diritto di morire dignitosamente» che deve essere assicurato al detenuto.

Inoltre, ferma restando «l'altissima pericolosità» e l'indiscusso spessore criminale» il tribunale non ha chiarito come tale pericolosità «possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico».

La presa di posizione della Commissione antimafia su Riina
Totò Riina ha una vita dignitosa nella sezione detentiva dell'ospedale di Parma e lì, qualora dovesse rimanere, ha tutta la possibilità di giungere anche a una morte dignitosa. È quanto affermò il 13 giugno la presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi che il giorno prima si era recata a sorpresa a Parma con i vicepresidenti Luigi Gaetti (M5S) e Claudio Fava (Articolo 1) oltre che nell'ospedale che lo ospita, anche nel carcere dove era detenuto fino a gennaio 2016.

Riina, Bindi: cure dignitose, non esiste diritto di morire a casa

«Totò Riina - ha detto Bindi - è vigile, interloquisce ed è ben assistito a Parma. Anzi, si può affermare che da maggio 2016 a oggi la situazione è perfino migliorata. Si può affermare che, per le sue condizioni di salute stazionarie, potrebbe in ipotesi esserci la possibilità di un ritorno in cella. Se tornasse nel carcere di Parma troverebbe una situazione persino migliore rispetto al passato».

Bindi con i suoi due vicepresidenti ha personalmente assistito al fatto che Totò Riina (con il quale non hanno parlato) è perfettamente vigile ed era seduto su una sedia a rotelle. Si alimenta regolarmente e viene assistito 24 ore su 24 da un'equipe infermieristica e medica specializzata. La struttura ospedaliera che a Parma ospita il boss corleonese Totò Riina è l'unica, insieme a Milano, ad avere un reparto detentivo in grado di accogliere detenuti al 41 bis.
Finora Riina ha dimostrato non solo grande capacità fisica ma anche psichica, tanto che, ha confermato Bindi anche dopo aver interloquito con i vertici ospedalieri, è in grado di seguire le udienze, intrattenere rapporti con i familiari, parlare con i legali, scrivere lettere all'esterno e leggere quelle che riceve. Quelle poche volte che non ha partecipato alle udienze ha dovuto rinunciarvi per contraria indicazione dei sanitari. Riina, ha detto Bindi, è e rimane il capo di Cosa nostra non perché lo Stato ha vinto, come qualcuno ha provocatoriamente detto, ma perché egli per le regole di Cosa nostra resta il capo». Se le strutture sanitarie, ha detto infine Bindi, «non fossero in grado di assistere i detenuti anziani, si assisterebbe presto a un imbuto di soggetti reclusi al 41 bis che potrebbero chiedere un differimento di pena».

Un estate con altri casi
Il 14 luglio Angelo Paviglianiti, ritenuto da investigatori e inquirenti un esponente della ‘ndrangheta reggina, al 41 bis, ha lasciato il carcere dove si trovava richiuso ed è andato in regime di arresti domiciliari, dopo l'istanza del suo avvocato, Giuseppe Nardo. Paviglianiti era stato condannato ultimamente a 18 anni nel processo “Ultima spiaggia” ma, anche a fronte del lungo curriculum giudiziario, l'aveva spuntata il suo avvocato anche sulla base delle numerose perizie mediche. Nardo ha fatto prevalere la tesi che al boss, affetto da numerose e gravi patologie, andavano riconosciuti i diritti fondamentali della salute e della dignità umana che non consentono in carcere trattamenti degradanti e disumani per nessuna persona, anche se detenuta. Il gup del Tribunale di Reggio Calabria ha riconosciuto valide le argomentazioni dell'avvocato, pur a fronte del parere fortemente contrario dell'ufficio di Procura che si era opposto alla scarcerazione.

La morte di Farinella
Appena due giorni fa, il 5 settembre, è morto nell'ospedale di Parma. Giuseppe Farinella, 91 anni. Il 29 settembre il Tribunale di sorveglianza avrebbe dovuto trattare la richiesta di differimento della pena. Boss stragista di San Mauro Castelverde, in cella dal 1994, cinque mesi fa, mentre era detenuto nel centro clinico del carcere, fu colpito da un ictus. Da qui il trasferimento nell'ala del nosocomio riservata ai detenuti. La Cassazione, a luglio, aveva accolto il ricorso del legale di Farinella, Valerio Vianello, ribadendo il principio di umanità della pena. Per confermare il carcere duro a un detenuto anziano e malato occorre spiegare come siano conciliabili «l'affermata capacità delinquenziale» con «l'effettiva possibilità di esprimerla concretamente» nelle «pur accertate condizioni patologiche in cui egli versa». Farinella veniva considerato il capo di un clan ancora operante, senza che vi fossero stati segnali di dissociazione.

r.galullo@ilsole24ore.com

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