Se qualcuno si chiede perché il M5S insista tanto sul taglio dei 2.600 vitalizi agli ex parlamentari, arroccandosi negli Uffici di presidenza di Camera e Senato come in un fortino, deve guardare al futuro: quella dell’accetta sui costi del palazzo è pressoché l’unica bandiera del Movimento delle origini che potrà essere sventolata e cavalcata se i Cinque Stelle arriveranno a Palazzo Chigi. Tutte le altre, a partire dal reddito di cittadinanza, dovranno essere ammainate: trattate, riviste, se non addirittura abbandonate. In nome della realpolitik e soprattutto della tenuta dei conti pubblici.
I pentastellati hanno bisogno della battaglia contro gli sprechi della “casta” come antidoto essenziale al veleno della realtà. È la loro carta jolly, che può tornare utilissima anche nello scenario di un rapido ritorno al voto, se lo stallo di questi giorni dovesse protrarsi per mesi. È il trait d’union da campagna elettorale permanente tra il vecchio Movimento di piazza, quello di Grillo che tuonava contro i parlamentari «abbarbicati come cozze ai loro privilegi» (anno 2011), e il nuovo Movimento di governo, quello di Casaleggio e di Di Maio, che dialogano con le lobby e con gli investitori, con il Vaticano e con le cancellerie europee.
Bisogna immaginare bene il contesto prossimo venturo, i numeri che ipotecano ogni manovra, per capire il valore simbolico della lotta ai costi della politica. Il futuro governo dovrà trovare 12,4 miliardi soltanto per disinnescare gli aumenti dell’Iva legati alle clausole di salvaguardia. La doccia fredda dell’Istat, costretta a rivedere al rialzo le stime su deficit (2,1-2,2% del Pil) e debito (131,8% del Pil) dopo la revisione contabile di Eurostat sul peso del salvataggio delle banche venete, certifica un miglioramento veramente sottile dei conti italiani del 2017. Pende la tegola di Bruxelles, con cui l’Italia dovrà confrontarsi per sventare il rischio di una manovra correttiva di 3,5 miliardi.
In questo quadro, le promesse roboanti risuonate prima del 4 marzo rischiano di finire in un cantuccio. Il reddito di cittadinanza? A taccuini chiusi sono in molti a riconoscere che si potrà partire con la sola prima gamba: la riforma dei centri per l’impiego, che vale 2 miliardi su 17 complessivi. Il massimo che si potrà ottenere per il 2019 sarà un ampliamento del reddito di inclusione targato Pd. Il superamento della legge Fornero sulle pensioni? Si comincerà con qualche segnale minimo: la proroga di “opzione donna”, l’estensione dei lavori usuranti. La riforma Irpef da 13 miliardi? Difficilissimo che possa essere attuata entro un anno. La spending review da 30 miliardi annui? È la cifra a regime, nessuno si illude che a breve l’aggressione alla spesa pubblica improduttiva possa dare risultati simili. Tanto meno la revisione delle tax expenditures, che dovrebbe fruttare 40 miliardi.
Ecco spiegata, allora, la centralità della scure sui costi della politica.E anche la fretta. Mentre il resto si sgonfia, l’antico vessillo deve rimanere a presidiare, con tutta la presa che continua a esercitare nei confronti dei cittadini. È stato un fuoco di fila. Roberto Fico, nel suo primo discorso da presidente di Montecitorio, ha sottolineato che «il taglio ai costi della politica dev'essere uno dei principali obiettivi di questa legislatura». La sera stessa, al Tg1, Luigi Di Maio ha ricordato che la Camera «ha rappresentato la casta per decenni», che costa quasi un miliardo e che finalmente «adesso avremo un presidente che rinuncia al doppio stipendio e potremo mettere mano ai vitalizi». Il questore anziano Riccardo Fraccaro non ha perso occasione, dal giorno della sua elezione, di annunciare che si procederà «subito» con il taglio «dell’assurdo e odioso privilegio dei vitalizi».
«Subito», è il diktat dei Cinque Stelle. La conquista del Parlamento - con oltre 330 seggi assegnati al M5S e sei componenti su 15 (oltre a Fico, che non vota) dell’Ufficio di presidenza di Montecitorio - rende molto più facile centrare il target rispetto alla passata legislatura. Perché se è vero che i vitalizi ai parlamentari in carica sono stati aboliti nel 2012, e trasformati in pensioni calcolate con il contributivo che si ricevono al compimento del 65° anno di età, il M5S punta a intervenire sul pregresso: quei 2.600 assegni tra i 2mila e i 10mila euro percepiti dagli ex parlamentari o dalle loro vedove che costano, secondo i calcoli dell’Inps, circa 193 milioni di euro ogni anno. Ricalcolandoli con il contributivo, secondo Fraccaro, si risparmierebbero 76 milioni, «380 milioni in una legislatura». La volontà è convocare appena possibile l’Ufficio di presidenza per approvare una delibera, studiata per evitare i rilievi di incostituzionalità (per la Consulta i diritti acquisiti sono intoccabili). Gli ex parlamentari, che ieri hanno chiesto un incontro ai presidenti Fico ed Elisabetta Alberti Casellati, sono già pronti alla guerra di carte bollate.
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