Il legame conflittuale tra spread e politica non è nuovo, ma la pagina che si sta scrivendo in queste ore eccezionali richiede una comprensione diversa.
La storia dello spread, il differenziale di rendimento tra i titoli italiani e quelli tedeschi, ha una data fondamentale nel marzo del 2009. Qualsiasi analisi statistica dei fattori che influiscono sui differenziali dei tassi europei segnala che in quel mese qualcosa di fondamentale si è rotto negli equilibri finanziari dell’euro-area.
È in quelle cruciali settimane infatti che venne avanzata dal Fondo monetario internazionale l’ipotesi di un’uscita della Grecia dalla zona euro.
Il direttore generale del Fondo Christine Lagarde e la cancelliera Merkel si dissero disponibili a considerare un’uscita di Atene, ma vennero frenati dal governatore della Bce, Jean Claude Trichet, e dal ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble (le posizioni di Merkel e Schäuble si invertirono nel 2015) giustamente preoccupati per la sopravvivenza dell’euro.
Quello che avvenne nel marzo 2009 valse per tutti i paesi membri della moneta unica: nella valutazione del rischio di ogni paese entrò per la prima volta l’ipotesi estrema di un’uscita dall’euro. Se negli anni Novanta il fattore chiave dei rendimenti era la probabilità di un riallineamento delle valute e poi di una ristrutturazione del debito, dal settembre 2007 cominciarono a pesare i problemi causati dai salvataggi bancari e dalla recessione. Ma è dal marzo 2009 che entra in questione il più radicale dei rischi, quello di uscita dall’euro, cioè di ridenominazione di tutti i beni e di tutti i risparmi. Mentre in precedenza il premio al rischio era associato al livello del deficit (il prezzo dei titoli dipendeva cioè dalla quantità offerta degli stessi titoli), dal marzo 2009 in poi è il livello dell’intero debito pubblico ad essere associato a un premio al rischio molto più alto, perché l’eventualità di uscita del paese dalla moneta unica implica la perdita di valore per tutti i titoli esistenti, non solo per quelli da emettere. È a quel punto che la posizione italiana diventa chiaramente diversa da quella francese che aveva deficit più alti, ma un debito più basso.
Anche altri fattori influenzano il rendimento dei titoli di un paese, a cominciare dai fondamentali, dal saldo risparmio-investimenti, dalle attese di sviluppo dell’economia e da un numero crescente di componenti di rischio fiscale. Ma negli ultimi sei anni, nonostante la “garanzia” della Bce, è persistito un livello di spread, tra i 110 e i 180 punti base, attribuibile in gran parte all’esistenza - in un orizzonte distante ma presente - di rischi radicali: di default del debito o di uscita dalla moneta unica dei paesi più deboli i cui destini inoltre si sono intrecciati l’uno con l’altro e distaccati da quelli dei paesi più saldi.
Per questa ragione, alcuni investitori in titoli italiani possono ritenere che il rischio di uscita dall’euro – diventato per la prima volta un’opzione plausibile per la maggioranza del Parlamento – fosse già contabilizzato nel differenziale dei tassi degli ultimi anni e che quindi il livello dei rendimenti sia già adeguato a dare un prezzo al rischio di uscita dell’Italia dall’euro. Questo spiegherebbe per quale ragione negli ultimi giorni l’aumento dello spread e dei rendimenti, pur notevole, non sia stato così drammatico e repentino come qualcuno temeva. Per ora il rendimento del BTp rimane appena sotto il livello massimo toccato negli ultimi tre anni.
Tuttavia proprio l’esperienza della crisi europea ha rivelato che l’aumento degli spread avviene per accelerazioni, perché a certe soglie l’aumento dei tassi alimenta esso stesso il rischio di default. Uno spread di 220 punti base segnala un rischio di fallimento del debito notevolmente più alto che a 110: se lo spread raddoppia, a parità di condizioni, il rischio di default quadruplica e crea le condizioni per altri aumenti dei tassi che avvicinano il rischio di non finanziare il debito e di dover chiedere assistenza ai partner, finendo sotto programma.
Paradossalmente, e con un filo di cinismo, la nuova linea politica italiana antagonista alle regole europee viene vista addirittura come un acceleratore dello scenario-base secondo il quale il paese sarebbe finito comunque prima o poi sotto programma. Accorciando così i tempi di attesa del risanamento strutturale dell’economia che la politica italiana faticava a realizzare o che sarebbe stato troppo difficile realizzare seguendo il “sentiero stretto” scelto dall’ultimo governo. In questo senso, alcuni analisti possono pensare che il colpo di coda populista sia addirittura un passaggio utile, benché pericoloso, ai fini di un successivo programma di riforma che in altri paesi, Spagna e Portogallo, ha avuto effetti positivi sulla crescita.
I fattori chiave diventano così la scelta del prossimo governo di non seguire le regole europee, lasciando crescere il debito, per poi decidere se rimanere o uscire dall’euro. Assumendo l’impossibilità tecnica di questa seconda opzione, in caso di crisi finanziaria la scelta politica sarebbe alla fine limitata all’adozione di un programma di assistenza soggetto a condizioni e supervisione delle autorità europee.
Questa prospettiva, che sottovaluta la complessità del passaggio politico nonché le incognite di un programma in un paese come l’Italia, è probabilmente la triste e forse fallace ragione per la quale i mercati non stanno (ancora) reagendo al programma anti-europeo in modo esasperato.
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