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Dossier | N. 57 articoliIl mondo del caffè

Le aziende del caffè: l’arte del decaffeinare e il primo aroma della torrefazione

Marka
Marka

Un caffè si può bere perché piace o per il suo effetto eccitante; un decaffeinato non ha senso se non è buono, si beve solo per piacere.

A Trieste la Demus è una delle sei aziende in Europa (tre in Italia, due in Germania e una in Spagna) che si occupano di decaffeinizzazione, cioè l'estrazione della caffeina dal chicco verde per le imprese che si occupano della torrefazione. I clienti sono in tutto il mondo, ma non si tratta solo della filiera del caffè. La caffeina, infatti, viene poi venduta per essere utilizzata in tre diversi mercati: quello delle bibite, anche energetiche, la cosmesi (ad esempio le creme anticellulite) e l'industria farmaceutica (rimedi per il mal di testa e altro).

Perché togliere la caffeina al caffè? “Sostanzialmente per poterne bere di più, con la conseguenza di aumentare i consumi – spiega l'amministratore delegato Massimiliano Fabian – ma anche per consentire l'uso del caffè anche alle persone intolleranti. Se poi togliamo anche le cere, grazie al nostro metodo, l'effetto è di ridurre la presenza di sostanze irritanti per le mucose gastriche”.

L'azienda è stata fondata nel 1962; oggi ha altre due divisioni: c'è Demus Lab, che svolge analisi chimico fisiche accreditate, controlli di qualità e consulenza e formazione sul caffè crudo e tostato, e – dal 2011 – Dna Analityca Srl, che studia il Dna a partire da quello del caffè per poi allargarsi ad altre tipologie (anche il cacao o il grano, ad esempio).

“In realtà la strada della selezione genetica per far crescere piante di caffè senza caffeina non sta portando a buoni risultati: una garanzia per il nostro lavoro di decaffeinizzazione – scherza Fabian – La caffeina è un anticrittogamico naturale perfettamente distribuito, difende le bacche ma non impedisce l'impollinazione alle api. Ed è molto difficile che ci siano piante di buona qualità, resistenti agli attacchi esterni e con una buona resa senza il giusto contenuto di caffeina”. L'azienda lavora sul fronte della qualità, sia nel trattamento tradizionale che con prodotti naturali (acqua e carboni attivi, metodo brevettato) dei chicchi: “L'intero processo è assolutamente sostenibile, e abbiamo diverse certificazioni: gestione della qualità, ambientale, salute e sicurezza sul lavoro, accreditamento delle analisi. Abbiamo anche dal 2017 la certificazione Halal che ci permette di esportare in tutti paesi di fede islamica e Kosher per l'esportazione nei mercati ebraici”.

I numeri del decaffeinato
In Demus e nelle sue divisioni lavorano 24 persone con diverse specializzazioni: dall'economia alla chimica, dalla biologia all'ingegneria; l'ultimo fatturato complessivo ha raggiunto i 6 milioni. “L'unico limite è la dimensione medio piccola: l'innovazione richiede investimenti ingenti e incerti nel risultato. Il nostro sguardo, però, è internazionale”, conclude Fabian. Le stime sui consumi parlano di una quota del 6-7% per il decaffeinato in Italia: la caffeina viene portata dal 1,2-1,5% per un'arabica o dal 2-4% per un robusta a un livello non superiore allo 0,1% (ma Demus offre anche un servizio personalizzato: può controllare il proprio processo produttivo e ottenere un residuo di caffeina inferiore al limite imposto dalla normativa, ad esempio non superiore a 0,05%).

Primo Aroma, la torrefazione che ascolta i chicchi cantare
L'azienda è stata fondata nel 2007; non ha solo vissuto per intero la crisi globale, ha anche affrontato l'impennata dei prezzi del caffè del 2010: “Abbiamo fatto delle scelte: metterci tutta la perseveranza e anche la nostra competenza, mantenere il legame con la clientela anche a costo di rimetterci: è stata la cosa giusta, e undici anni dopo siamo qui a darci pacche sulle spalle ricordando il passato”.

Fabrizio Polojaz è amministratore di Primo Aroma e socio fondatore insieme a Corrado Bassanese. Entrambi provenienti da famiglie di professionisti del caffè, hanno lavorato per aziende del settore fino alla decisione di aprire un'azienda propria. “Siamo una torrefazione quale prevale il fattore umano, mentre industrie più grandi si affidano alla tecnologia – spiega Polojaz – lavoriamo le diverse tipologie di caffè separatamente, per poi unirle in miscele che rispettano le caratteristiche e i tempi di tostatura di ciascuna anche se questo significa complicarci un po' la vita. E' un po' come fare una grigliata mista: non puoi mettere insieme tutto subito, sennò qualcosa si brucia e qualcosa resta indietro”.


Un lavoro che richiede “occhi, naso e perfino orecchie, perché i chicchi sono pronti quando cantano per la seconda volta. E' il rumore caratteristico che si avverte quando la temperatura sale, un po' come lo scoppio di un pop corn, ma meno forte. Quasi un canto, appunto”. Sfumature che richiedono abilità: “Abbiamo in azienda un torrefattore che fa questo mestiere da 36 anni. Ma ci sono anche i giovani: oggi siamo in sette, il fatturato è di 1,5 milioni”.

I due soci fondatori sono entrambi anche assaggiatori di caffè “e l'inizio del nostro lavoro consiste sempre nell' assaggiare i migliori campioni di caffè verde prima del loro arrivo e valutarne l'utilizzo”. Primo Aroma tratta 250 tonnellate di caffè l'anno, provenienti da 30 Paesi di origine differenti. Fin dall'inizio sui barattoli e sulle confezioni hanno pubblicato anche la propria immagine e le rispettive firme, “un modo per far capire che siamo garanti della qualità e ci mettiamo la faccia”.

La clientela – importatori e distributori - è per il 70% estera: predominano le private label, le etichette che vogliono offrire un prodotto italiano ai clienti (in canale Horeca: hotel, ristoranti, caffè), dall'Europa al Medio Oriente. In Italia, di 4mila torrefazioni esistenti 30 anni fa, ne sono rimaste 800.

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