Sul fatto che il distillato italiano più conosciuto nel mondo sia la grappa, ovvero un distillato di vinacce, non ci piove. Ma per quello che riguarda il distillato di vino, ovvero il brandy, il discorso è completamente diverso. Ed è un peccato perché sebbene i francesi possono vantare la gloria e il prestigio del loro cognac, nel nostro Paese esistono distillatori di vino che meriterebbero una maggiore attenzione. Il motivo per il quale non l'abbiano, almeno ancora, è un po' da attribuire al fatto che l'appeal del brandy nazionale è piuttosto basso. Ma le cose potrebbero cambiare se solo si volesse andare un po' più in profondità e iniziare a distinguere i prodotti autentici da quelli più mass market, che solitamente prendono più facilmente la strada dei fornelli rispetto a quella dei calici da degustazione. La riprova si è avuta qualche giorno fa a Milano con un pranzo in compagnia di quattro artisti dell'alambicco che rispondono al nome di Mario Pojer, Bruno Pilzer, Guido Fini Zarri e Vittorio Gianni Capovilla.
Essendo artisti, pertanto dotati di forti individualità, averli messi tutti intorno a un tavolo è stato di per sé un ottimo risultato, ma l'aspetto più interessante è che tra di loro sembra essersi creato una sorta di spirito, nomen omen, che li accomuna e che distingue la produzione del brandy artigianale da quello che artigianale non è.
La selezione della materia prima, la fermentazione senza aggiunta di anidride solforosa, gli alambicchi rigorosamente charentais, quelli che si usano per il cognac, o a bagnomaria, il rispetto dei tempi d'invecchiamento, il divieto di aggiunta estranee come zucchero, caramello, aromi naturali o artificiali e nessuna manipolazione prima dell'imbottigliamento con l'esclusione della filtrazione a temperatura ambiente sono dei parametri comuni che allo stesso tempo rappresentano un'intesa e una straordinaria arma di comunicazione. Perché delineano le peculiarità che un brandy artigianale italiano deve avere e che lo distinguono. Pur nel rispetto delle differenti declinazioni che, giustamente, cambiano da produttore a produttore.
I brandy presentati (il Distillato di Vino 1998 di Capovilla, il Brandy Italiano Assemblaggio Tradizionale 10 Anni di Villa Zarri, l'Historiae Brandy Portegnac 13 Anni di Pilzer e l'Acquavite Divino Dolomiti Vendemmia 2000 di Pojer e Sandri) hanno offerto emozioni differenti va da se’, ma la definizione di parametri comuni, di una “carta d'identità” del brandy artigianale italiano rappresenta il primo passo per mettere sotto i riflettori un distillato che sarebbe un peccato lasciare in esclusiva alla attuale nicchia degli estimatori.
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