Dunque, rieccoci qua: Juventus campione d’Italia per l’ottavo anno di fila, 35esimo scudetto della sua storia c0nseguito dopo
aver battuto 2-1 in casa la Fiorentina con la rete di Alex Sandro (37’) e l’autogol di Pezzella (53’) che hanno ribaltato
il momentaneo vantaggio della viola firmato da Milenkovic (6’). Ma come si fa a commentare l’ottavo scudetto consecutivo
della Juve con parole diverse da quelle usate per il settimo? La tentazione di prendere lo stesso articolo scritto l’anno scorso, cambiare date, numeri, qualche nome e riproporlo è enorme. Permettete un pensiero inattuale?
Di fronte all’eterno ritorno dell’uguale (Nietzsche), ci si salva solo con la ripetizione (Kierkegaard). Non lo faremo tuttavia.
E sapete perché? Perché la ripetizione ci annoia. Concetto terra-terra che a nostro avviso farebbero bene a comprendere pure
nella stanza dei bottoni dell’Italia pallonara: lo strapotere bianconero uccide di noia il prodotto calcio.
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Kenny muore sempre: sembra «South Park»
Perché una storia appassioni, un racconto interessi, una narrazione tenga viva l’attenzione del pubblico, serve un conflitto.
Alla nostra serie A questo conflitto manca da troppo tempo. Guardereste un film in cui si capisce subito che alla fine lui
muore? Leggereste un romanzo dove è chiaro fin dalla prima pagina che Tizio si sposa con Caia? Quante stagioni potrà mai durare
una serie Tv senza mezzo colpo di scena? Persino chi produce fumetti deve essersi posto il problema, se è vero che Superman
e Capitan America sono morti e resuscitati da un albo all’altro. Il calcio italiano, invece, sembra ormai rassegnato a una
specie di destino da South Park, cartoon politicamente scorretto che a ogni puntata ripropone uguale a sé stesso il tormentone della morte di Kenny.
Alternanza tra 5 club da quando la serie A va in Tv
Quella però è satira, non sport. Nello sport la contendibilità è la chiave dell’interesse del pubblico e uno strapotere non
può mai essere eterno, a meno che il sistema non voglia segare il ramo su cui è seduto. In Formula 1, quando vince sempre
la stessa scuderia, va a finire che prima o poi si cambiano le regole. Il calcio italiano una stagione fa ha introdotto la
Var ma, polemiche a parte, non è servita a cambiare le gerarchie. Persino nel wrestling, disciplina che ha più cose in comune
con la fiction che con l’attività sportiva, qua e là ci si preoccupa di far vincere il villain per mettere un po’ di pepe. E invece guardiamo gli ultimi 50 anni di serie A. Dal 1969 al 1994 lo scudetto è andato a 11 squadre
diverse, con eccezioni clamorose alla leadership dei grandi club del Nord che si chiamano Fiorentina, Cagliari, Verona e Sampdoria.
Dal 1994 al 2019 l’alternanza coinvolge appena cinque club. E per merito delle annate straordinarie che oggi sembrano irripetibili
di Lazio (1999/2000) e Roma (2000/2001), brevissime parentesi nei cicli di Milan, Inter e soprattutto Juventus. C’entrerà
qualcosa il fatto che dalla stagione 1993-1994 è cominciata la cessione dei diritti televisivi alle pay Tv?
Lo strapotere fa bene alla Juve?
Sia chiaro: qui nessuno vuole crocifiggere la Juventus che, comprando Cristiano Ronaldo dal Real Madrid, ha ucciso il campionato
prima ancora che cominciasse. Il cinque volte pallone d’oro è arrivato a Torino per 100 milioni con un contratto quadriennale
da 30 milioni netti l’anno e un obiettivo: riportare dopo 23 anni la Champions in bianconero. L’operazione, almeno per quest’anno,
non è riuscita: gli eroici furori della compagine allenata da Allegri si sono spenti di fronte ai giovani olandesini dell’Ajax.
Per paradosso, con Cr7 la Juve si ritrova addirittura un titolo in meno (la Coppa Italia) rispetto all’anno scorso. Le fa
bene questo strapotere in Italia? Molti tifosi juventini, posseduti dallo spirito della nemesi di calciopoli, non avranno
dubbi e risponderanno affermativamente. «Dovete impazzire», l’affettuoso slogan che indirizzano alle tifoserie avversarie.
Anche chi sostiene le ragioni storiche della nascita di una Superlega europea tirerà acqua al suo mulino, argomentando sulla
svalutazione dei campionati nazionali. Certo, dovrà spiegarci che senso ha la Superlega in un calcio europeo che tra le prime
quattro squadre di Champions un anno esprime la Roma e quello dopo l’Ajax. Outsider al vertice, belle storie, linfa vitale
per lo sport.
Le responsabilità delle altre
Tra le avversarie, lo strapotere juventino se lo portano sulla coscienza prima di tutte Inter e Milan, sfiancate da passaggi
societari tutt’altro che lineari, approdate l’una in mano al gruppo cinese Suning, l’altra al fondo americanno Elliott, hanno
investito tanto sul ritorno in vetta. Ma piuttosto male, a conti fatti. La crisi delle milanesi rappresenta il nocciolo della
questione crisi del movimento italiano. Nel vuoto da loro creato si sono infilate a turno Napoli e Roma, club ispirati a modelli
societari molto diversi - la «multinazionale tascabile» di De Laurentiis da un lato, la controllata italiana dell’italoamericano
Pallotta dall’altro - in entrambi i casi parecchio distanti dai bianconeri. Fuori dal campo e dentro.
Un giorno ne usciremo (ma anche no)
Come se ne esce? Ci inventiamo improbabili play-off? Mettiamo in piedi meccanismi di mercato stile Nba? Mandiamo alle ortiche
il fairplay finanziario e chi riesce a trovare soldi li spende, come ai tempi belli? Di fanta-soluzioni ne abbiamo sentite
tante, ma forse la domanda preliminare che dovremmo porci è un’altra: siamo sicuri che il movimento calcistico italiano ne
voglia veramente uscire? Boh. Intanto godiamoci le semifinali di ritorno di Coppa Italia che contrappongono le «outsider»
Milan, Lazio, Atalanta e Fiorentina. E mettiamo da parte questo pezzo: potrebbe tornare buono per l’anno prossimo. Buona Pasqua
e buona fortuna.
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