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Questo articolo è stato pubblicato il 24 giugno 2010 alle ore 08:15.
Frammenti di notizie digeriti a fatica tra uno status update su Facebook, uno sguardo alla mail e uno a YouTube. Brandelli di conversazioni sullo smartphone, su Skype e in televisione che si intrecciano, emergendo di tanto in tanto dallo sfondo. A casa come in ufficio, in auto: oggi, domani, sempre. O fino a quando ci si accorge di non riuscire a prestare attenzione a nulla per più di due minuti. È possibile che essere sempre più connessi ci stia rendendo superficiali, distratti, ansiosi? Possibile che tutto questo stia modificando la fisiologia e l'anatomia del nostro cervello, cambiando il modo in cui pensiamo? E che cosa comporta tutto ciò per la professione giornalistica?
Sono alcune domande che il Nieman Journalism Lab di Harvard affronta nel rapporto «The Digital Landascape: What's Next for News?», e in particolare nella sezione «Brain Power», dedicata a comprendere come i più recenti contributi delle neuroscienze possano aiutare i giornalisti a interfacciarsi al meglio con le nuove tecnologie e con lettori che ne fanno un utilizzo sempre più massiccio. Con conseguenze spesso sgradite. Secondo Clifford Nass un utente della Rete su due fa quattro cose alla volta, uno su cinque addirittura sei. Con gravi effetti sul modo in cui viene processata l'informazione: difficoltà a distinguere il rilevante dal superfluo, nell'utilizzo della memoria a breve termine e – paradossalmente – nel passare da un compito all'altro. Una sorta di contrappasso per chi viene definito heavy multitasker.
I deficit cognitivi poi rischiano di essere duraturi, modificando le connessioni neurali in modo tale da disabituarci alla lettura profonda e dunque agli approfondimenti, alla comprensione di sfumature di significato inaccessibili alle costanti peregrinazioni da link a link di cui siamo sempre più protagonisti. E che sostengono uno stato di eccitazione emotiva che, sottolinea Russell Poldrack, è vorace quanto una dipendenza da droghe o cibo. Le notizie non vengono assorbite senza una sana dose di sforzo. Certe difficoltà sono "desiderabili", chiosa Poldrack, anche se sono proprio ciò evitiamo.
Soprattutto in un ambiente la cui stessa natura (sempre più frammenti di informazione, sempre meno tempo per ordinarli) aumenta la fame del nostro cervello emotivo. Per questo il giornalismo ha il dovere di chiedersi come sfruttarla per veicolare efficacemente notizie che vadano oltre il gossip e l'infotainment, prodotti congeniali per lettori assuefatti alla novità e al disimpegno. Insegnare al pubblico, insomma, a concentrarsi su ciò che davvero conta e richiedere accuratezza.