Certo, lo hanno imposto le misure di contenimento alla pandemia da nuovo coronavirus. Ma il 2020 è stato l’anno dello smart working non solo per i grandi gruppi e gli immensi open space. Il lavoro agile ha infatti conquistato anche le piccole e medie imprese. Se infatti prima del lockdown appena il 4,6% delle aziende con meno di 250 dipendenti consentiva a questi ultimi il lavoro da remoto, durante l’emergenza questa percentuale è salita fino a sfiorare il 37%.
A dirlo è il Market Watch PMI, con un’indagine che ha coinvolto oltre 550 imprese manifatturiere italiane realizzata dall’Ufficio Studi di Banca Ifis in collaborazione con Format Research. Condotta tra dicembre 2020 e gennaio 2021, l’analisi ha consentito di monitorare l’impatto dello smart working sul sistema produttivo italiano e le relazioni tra impresa, scuola e ricerca, anche queste ultime messe a dura prova dal lockdown.
Ovviamente l’adozione del lavoro da remoto non è stata uniforme, né sotto il piano geografico, né sotto il profilo delle dimensioni aziendali, né soprattutto guardando al settore produttivo in cui operano le imprese. I comparti che hanno visto le più ampie percentuali di utilizzo del lavoro agile sono stati quello della chimica e farmaceutica e delle aziende tecnologiche, mentre lo smart working si è imposto in un numero minore di casi nelle costruzioni, nell’automotive e nella moda.
Sul piano geografico, le imprese più resilienti sono quelle del Nord-Ovest, dove il 48,9% delle PMI ha introdotto il lavoro agile per continuare ad operare da remoto anche durante il lockdown. Più difficile, invece, la situazione al Sud e nelle isole, dove appena il 19% delle aziende con meno di 249 dipendenti ha attivato forme di home working. Una soluzione che è stata più semplice da applicare per le aziende di dimensioni più grandi: vi ha fatto ricorso il 73,6% delle PMI con più di 50 addetti contro appena il 27,9% di quelle con un numero di dipendenti compreso tra 10 e 19.
L’attivazione dello smart working ha richiesto, chiaramente, il ricorso alla tecnologia, a cominciare da quella digitale. Il 70% delle aziende lo ha implementato impiegando piattaforme di videoconferenza e di messagistica per permettere ai propri dipendenti di operare in team. Per la stessa ragione, il 63,9% ha fatto ricorso a servizi per l’interscambio di file e di documenti. Il 73,9% delle PMI ha fornito ai propri dipendenti strumenti per la produttività individuale (computer, tablet o smartphone) mentre ben il 20,5% delle realtà che hanno preso parte alla survey ha partecipato, in tutto o in parte, alle spese sostenute dal personale in lavoro da remoto per connettersi alla rete. Alcune PMI hanno inoltre fornito elementi di arredo ai collaboratori che lavoravano dalla propria abitazione.
Certo, ci sono anche gli aspetti negativi. Perché se da un lato è vero che il lavoro agile ha consentito alle imprese di continuare a lavorare pur in una situazione di emergenza ci sono anche aspetti del tradizionale lavoro di ufficio che hanno risentito del distanziamento. In particolare, il 28% delle aziende intervistate ha segnalato come la coesione del gruppo di lavoro sia diminuita a causa dell’introduzione dello smart working.
Elementi come questo, così come il fatto che questo cambiamento non sia stato il frutto di un percorso ma sia stato imposto dalle circostanze, spiegano il desiderio delle imprese di tornare alle abitudini precedenti la diffusione del nuovo coronavirus. Certo, il 62% delle PMI manterrà la possibilità per i propri dipendenti di operare da remoto, ma il 45% ridurrà l’intensità con cui sarà consentito ricorrere a questa soluzione. Per il 91% delle aziende con meno di 250 dipendenti, tuttavia, resta centrale il ruolo dell’ufficio per lo svolgimento delle attività lavorative. Lo scenario che si va prefigurando, quindi, prevede il passaggio graduale dal remote working emergenziale a un modello di lavoro veramente “smart”, dove alla presenza in sede si affianca la possibilità, e la flessibilità, di lavorare da casa.
Infine, sul fronte della collaborazione delle imprese con gli istituti tecnici, l’università e il mondo della ricerca, dall’indagine risulta che la metà del campione intervistato ha previsto qualche forma di contatto, a conferma del forte legame con il territorio che ancora coinvolge il tessuto produttivo italiano. Ad esempio, sia ospitando i tradizionali tirocini che attraverso l’alternanza scuola-lavoro, così come con le visite agli impianti e corsi di formazione.
Tra i dati principali emersi, inoltre, spicca quello dell’interesse da parte delle medie imprese (quelle con più di 50 addetti e meno di 250) alla collaborazione con l’università per le attività di ricerca: ben una su cinque già dichiara di avere in corso o pianificato progetti per attività di R&D con il mondo accademico, con un’incidenza doppia rispetto allo stesso dato sul totale del campione. La scelta della modalità per lo sviluppo dell’innovazione sembra quindi passare anche dalla proficua collaborazione tra le aziende, gli istituti tecnici e gli atenei.