Frenata passeggera (forse) per la crescita del Myanmar. Secondo l’Asian development bank, il Pil del Paese è aumentato del 6,4% nel 216-17, dopo il 7,3% dell’anno precedente. La stessa Adb prevede però un’accelerazione al 7,7% nell’anno in corso e all’8% il prossimo. La frenata ha interessato tutti i settori economici, ma è stata più marcata nei servizi che hanno decelerato dal 9,1 al 7,6 per cento. Anche gli investimenti diretti esteri hanno segnato il passo, con un calo del 30% (6,64 miliardi di dollari contro i 9,48 del 2015-16). Il deficit delle partite correnti è aumentato al 7% del Pil, dal 5,2% del 2015. A pesare, oltre alla debolezza della domanda globale, sono state anche le incertezze legate alla nuova guida politica del Paese.
Dopo i decenni di isolamento internazionale, un po’ per scelta della giunta militare, un po’ per effetto delle sanzioni internazionali adottate proprio contro il regime, il Myanmar è tra le nazioni più povere al mondo, con un Pil pro-capite di 1.300 dollari e un prodotto interno lordo di circa 67 miliardi di dollari, nemmeno il 4% del Pil italiano (dati nominali Fmi, 2015). Proprio per questo ha una gran voglia di recuperare il terreno perso e di aprirsi agli investimenti esteri, senza dimenticare l’attenzione allo sviluppo sostenibile. Soprattutto ora che a guidare il Paese c’è Aung San Suu Kyi e la sua Lega per la democrazia, dopo le trionfali elezioni del novembre 2015, che hanno consentito al partito di conquistare la presidenza e di creare per il Nobel per la pace il ruolo di capo dell’Esecutivo, ritagliandole “su misura” la carica di consigliere di Stato, finora non previsto nell’ordinamento birmano.
Il 2015 è stato un anno delicato per il Paese, con le prime elezioni “vere” dal 1990. Gli osservatori internazionali hanno atteso con cautela un passaggio di testimone che si temeva potesse riservare sorprese e intralciare lo sviluppo economico. Tutto però sta procedendo in modo ordinato.
Con 51 milioni di abitanti, infrastrutture da costruire quasi da zero, e un costo del lavoro nell’industria di circa 80 dollari al mese, da quando è stato riammesso praticamente a pieno titolo nella comunità internazionale, il Myanmar (membro dell’Asean con Thailandia, Laos, Cambogia, Vietnam, Malesia, Singapore, Indonesia, Brunei e Filippine) ha conquistato l’attenzione delle multinazionali di tutto il mondo. Cinesi, giapponesi e sudcoreani si stanno muovendo a una velocità impressionante: il marchio Samsung campeggia ovunque a Yangon e domina le nuovissime strade, già intasate di auto giapponesi di seconda mano che sfrecciano davanti alle luci dei negozi di moda appena aperti. Europa e Stati Uniti (questi ultimi non hanno ancora completamente cancellato le sanzioni varate contro il regime, a differenza della Ue), per ora, inseguono.
Oltre a una popolazione giovane (oltre la metà è sotto i 21 anni) e a una manodopera tra le meno costose dell’Asia, il Myanmar è un forziere incastonato tra India e Cina e colmo di gemme e pietre preziose, oro, il legname più pregiato del mondo, derrate agricole e risorse ittiche, gas, petrolio, marmo e minerali.