Il primo anno di Governo del Nobel per la pace Aung San Suu Kyi si è chiuso con qualche delusione sia sul piano politico che su quello economico. La questione dei Rohingya, la minoranza musulmana vittima di quella che le organizzazioni internazionali per i diritti umani definiscono una persecuzione, ha gettato più di un’ombra. E la crescita economica ha segnato il passo.
Il 2015 era stato un anno storico per il Myanmar. Le elezioni tenute a novembre, le prime da 25 anni nelle quali l’establishment militare abbia lasciato all’opposizione la possibilità di vincere, avevano Suu Kyi e il suo partito, la National league for democracy (Nld), che si sono così insediati alla guida del Paese.
Lo stesso risultato del 1990. Suu Kyi era tornata in Myanmar solo due anni prima: in poco tempo aveva fondato la Nld e l’aveva guidata al trionfo. Ma la giunta al potere dal 1962 aveva cancellato la volontà popolare e relegato la sua eroina agli arresti domiciliari.
Grazie all’ampia maggioranza ottenuta in Parlamento, la Nld non ha avuto difficoltà a eleggere come presidente il proprio candidato: Htin Kyaw uno degli uomini più vicini al Nobel (per alcuni anni è stato suo autista). Il Myanmar è un sistema quasi presidenziale e tocca al capo dello Stato, che resta in carica 5 anni, nominare il Governo. Insediare Suu Kyi non era però possibile, per effetto della “trappola” inserita dai militari nella Costituzione, che nega ai cittadini con parenti stretti stranieri la possibilità di correre alla carica. Una clausola scritta appositamente per Suu Kyi, che ha due figli britannici. Cambiare la Costituzione non si può senza l’assenso dei militari: le leggi di riforma devono essere infatti approvate dal 75% più uno dei parlamentari e la giunta si riserva, sempre con norma costituzionale, il 25% dei seggi.
Dopo aver difeso il proprio potere per decenni, reprimendo, arrestando, uccidendo, nel 2011, piegati dalle sanzioni internazionali e dall’abbraccio asfissiante della Cina, i militari hanno avviato la transizione verso la democrazia, lasciando il governo all’ex-generale Thein Sein. Ma non hanno mai avuto intenzione di cedere il controllo degli assetti istituzionali ed economici del Paese. Oltre a controllare un quarto dei seggi parlamentari, possono contare su uno dei due vicepresidenti e su tre ministeri chiave, Difesa, Interni e Confini, per Costituzione nominati dal comandante delle Forze armate tra i membri dell’Esercito. Nelle loro mani ci sono anche le forze dell’ordine e gran parte dell’amministrazione pubblica.
Suu Kyi non ha mai fatto mistero di voler esercitare la guida del Paese, al di là del dettato costituzionale. La nomina del fido Htin Kyaw va in questo senso, così come la legge approvata dal Parlamento per creare una carica ad hoc per il Nobel, quella di consigliere di Stato. La figura è simile a quella di primo ministro, che prima non esisteva nell’ordinamento birmano. In queste vesti, Suu Kyi assume la guida dell’Esecutivo. Inoltre, è stata nominata ministro degli Esteri e dell’Ufficio del presidente.
Alcuni osservatori sollevano perplessità sulla tenuta istituzionale del sistema. Ma la vera incognita riguarda i rapporti con l’establishment militare.
Con le leve del potere in mano, ci si attende che Suu Kyi acceleri il processo di liberalizzazione della società e prosegua le politiche economiche degli ultimi anni. Porte aperte agli investimenti esteri, quindi, ma con più attenzione alla crescita sostenibile, per evitare la trappola dello sviluppo diseguale che in tanti Paesi emergenti ha fatto la fortuna di pochi e lasciato le masse in miseria.
In politica estera, Suu Kyi continua il riallineamento filo-occidentale e soprattutto filo-Usa, senza però rompere in modo drastico con la Cina, che nel Paese ha ingenti investimenti.
Un capitolo particolarmente spinoso, anche per i riflessi sulla credibilità internazionale di Suu Kyi, si sta rivelando quello della minoranza musulmana dei rohingya.
Malgrado la maggioranza della popolazione buddhista in Myanmar consideri i rohyngia immigrati illegali arrivati dal Bangladesh, importanti insediamenti musulmani nell’attuale Rakhine sono rintracciabili sin dal XV secolo, nel regno del Mrauk-U che dominò su un’area compresa tra i moderni Bangaldesh e Rakhine fino alla fine del XVIII secolo, come protettorato del sultanato del Bengali. Nazionalisti e buddhisti radicali fanno invece risalire la presenza di questo gruppo etnico in Myanmar alla seconda metà dell’800, quando l’Impero britannico favorì massicci flussi migratori dal Bangladesh all’Arakan (come si chiamava al tempo l’attuale Rakhine), abitato da un altro gruppo etnico, i buddhisti rakhine. La convivenza tra i due gruppi, complici gli errori del colonialismo e poi le vicende della seconda guerra mondiale e la successiva “ritirata” britannica, non è mai stata pacifica, con violenze da entrambe le parti, che hanno stratificato pregiudizi e rancore. I rohingya (circa un milione di persone) non hanno diritto alla cittadinanza birmana, in base a una legge del 1982 varata dalla giunta militare, che li esclude dall’elenco dei 135 gruppi etnici riconosciuti.
Oggi, un terzo dei rohingya vive nel Rakhine. Le violenze hanno subito una escalation nel 2012, quando i monaci buddhisti della regione, appoggiati da forze politiche locali, ne invocarono la cacciata, dopo che alcuni musulmani furono accusati di aver stuprato una donna arakan. Secondo il dipartimento di Stato Usa, le violenze che ne seguirono causarono 200 morti e 140mila profughi. Le Nazioni Unite, quantificano in 160mila i rohingya che dal 2012 hanno abbandonato la regione, cercando scampo in Malesia, Thailandia e Indonesia, oltre che in Bangladesh. Circa 120mila persone sarebbero internate in 40 campi di raccolta allestiti in Myanmar.
Un’altra ondata di violenze è esplosa nell’ottobre del 2016, dopo l’attacco a una caserma della polizia da parte di un gruppo di rohingya. La repressione delle forze armate birmane è stata durissima. Il 25 agosto del 2017, i rohnigya hanno attaccato 31 posti di polizia birmane. Anche in questo caso la repressione è stata brutale. In meno di un anno, circa 400mila rohingya sono fuggiti in Bangaldesh.
Alla persecuzione etnico-religiosa si sovrappongono gli interessi economici. L’apertura agli investimenti internazionali ha infatti aperto una corsa all’acquisto di terreni che ha fatto esplodere le quotazioni di mercato e che ha prodotto un’ondata di espropri a scapito di piccoli proprietari un po’ in tutto il Paese e che diventa deportazione nei confronti di un gruppo etnico percepito come estraneo dalla maggioranza della popolazione. Il Governo, che si rifiuta di usare il termine rohingya, ha sempre negato a questo gruppo la cittadinanza birmana, privandolo di diritti politici e civili. Nonostante vivano nella regione da generazioni, i rohingya sono quindi considerati alla stregua di immigrati clandestini.
La situazione non ha subito miglioramenti con l’ascesa al potere di Suu Kyi, che non si è mai pronunciata in modo netto in difesa dei rohingya. I margini di azione di Suu Kyi sono però limitati, visto che esercito e politica dei confini sono fuori dalla sua sfera d’azione e strettamente nelle mani dei militari.