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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:35.

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(Epa)(Epa)

C'è sempre un Terzo Mondo che scava nelle viscere della terra: una volta eravamo noi italiani i sepolti vivi, come ricorda la tragedia del 1956 a Marcinelle in Belgio (262 morti, 135 italiani), adesso i volti dei minatori sono turchi, cileni, cinesi, africani. La tragedia nella miniera turca di Soma, a 120 chilometri da Smirne - 240 morti e un centinaio di persone intrappolate - è avvenuta non lontano dalle coste del turismo, del boom dell'export, della crescita del Pil, un'affermazione salutata dall'ascesa della Turchia al 16° posto tra le economie mondiali.

Ma questa Turchia affluente ha anche un altro triste primato, è il Paese d'Europa con il maggior numero di incidenti sul lavoro. Nel '92 263 minatori morirono in un'esplosione sul Mar Nero e negli ultimi 30 anni le vittime nelle miniere sono state almeno 700. L'anno scorso ne sono morti 93 e a novembre 300 minatori - imitando quelli del Sulcis - si erano rinchiusi con l'esplosivo in fondo alla miniera di Zonguldak per protestare contro misure di sicurezza insufficienti. Due settimane fa il partito di opposizione Chp aveva proposto in Parlamento un'inchiesta sulla sicurezza proprio nella miniera di Soma: iniziativa sonoramente bocciata dal partito di governo Akp.

Questa morìa endemica è accettata con un colpevole fatalismo: lo stesso primo ministro Erdogan nel 2010, in seguito a un incidente, affermò che i minatori erano «morti beatamente», aggiungendo che questo è «il destino» di chi fa quel mestiere. La frase allora suscitò un'ondata di polemiche e oggi è destinata a risollevarle perché Erdogan, dopo la svolta autoritaria imboccata a Gezi Park, non perde occasione per distinguersi con dichiarazioni imbarazzanti.

La tragedia di Soma appare destinata ad avere una rilevanza politica, come dimostrano ieri le manifestazioni di protesta a Istanbul, Ankara e le contestazioni al premier durante la visita alla miniera. È forse in arrivo un'altra ondata di malcontento per Erdogan che dopo il trionfo alle amministrative punta a vincere le presidenziali: può contare su solide maggioranze e un potere di seduzione che ha esercitato per anni nei confronti delle élite economiche attratte dai suoi innegabili successi.

Ma c'è qualche cosa di più delle cifre nude e crude che proietta ombre sul modello di sviluppo turco, non troppo dissimile da altre potenze in ascesa come la Cina, che ha il record mondiale di produzione di carbone e di morti nelle miniere. La protesta contro i progetti di centro commerciale e moschea a piazza Taksim è stata indicativa dei limiti di questo modello: tra cantieri e colate di cemento all'orizzonte del Bosforo, la società civile lamenta le gravi conseguenze di un liberismo selvaggio.

Per molti turchi questo boom edilizio sfrenato non è un segno di progresso: i frequenti terremoti sgretolano labili edifici di sabbia costruiti sull'onda della speculazione senza seguire le regole anti-sismiche e neppure quelle urbanistiche più elementari. E ora è arrivata la strage di Soma, «di coloro - come Luciano Bianciardi descriveva 60 anni fa i minatori maremmani - che scavano nell'acqua gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, di coloro che a centinaia di metri di profondità consumano i polmoni respirando silicio e vampate di grisou». C'è una Turchia agra e amara, dimenticata o sfregiata dal miracolo economico: anche a Erdogan conviene riconoscerla e occuparsene.
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