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L'euro forte fa rallentare l'export ma per ora nessuno lancia l'allarme

di Antonio Pollio Salimbeni

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13 luglio 2007

BRUXELLES - Con l'euro in zona 1,38 dollari sono in pochi a dipingere scenari semiapocalittici per l'economia dell'eurozona.
A parte la pressione politica francese pe"riequilibrare" i rapporti di forza tra governi e Bce nella gestione della politica monetaria - peraltro destinati all'insuccesso fosse solo per la ferma opposizione tedesca - una parte dell'industria europea certamente si preoccupa, ma non è un caso che in Europa non ci sia, almeno finora, una vera e propria campagna contro l'euro forte. BusinessEurope, che raggruppa le associazioni degli imprenditori, ha segnalato qualche settimana fa l'approssimarsi della zona di "pericolo".
Le reazioni dei governi risentono come è ovvio della posizione competitiva dei paesi che guidano. Non si trova un politico tedesco, belga, olandese o irlandese che gridi al lupo. In Germania domina un approccio che si può definire zuccheroso: "Amo l'euro forte", ha dichiarato ai colleghi un po' stupefatti il ministro delle finanze Steinbrueck qualche giorno fa a Bruxelles.
Avendo promosso le politiche giuste nel momento giusto, puntando anche attraverso le delocalizzazioni sui mercati a forte crescita come Cina, India, Russia e l'est europeo, e sulla prolungata moderazione salariale, la Germania è tornata quel campione mondiale nelle esportazioni manifatturiere che era.
Tranne i francesi, già in allarme cinque mesi fa quando l'euro era a quota 1,30 dollari, nessuno vive l'ossessione dell'euro forte. Quanto l'euro si è piazzato a 1,30 dollari, Romano Prodi affermò timidamente: "Spero non si apprezzi troppo". Poi non ha detto più nulla.
Questa settimana ha tagliato la testa al toro Jean Claude Juncker, il presidente-portavoce dei ministri dell'unione monetaria, decretando: un cambio agli attuali livelli non è un pericolo per la crescita economica. E stamane il commissario europeo Almunia ha detto: restiamo vigilanti. Non è una novità perché di "vigilanza" parla da mesi il G7.
Chi ha ragione e chi ha torto? L'ultimo rapporto trimestrale della Commissione europea sull'eurozona che aggiorna due analisi precedenti fornisce qualche indicazione interessante.
Intanto una premessa: l'apprezzamento dell'euro dal 2001 non è stato particolarmente elevato se visto rispetto agli standard storici, in termini effettivi +4,5% e +1,8% sopra la media di lungo termine a seconda del modo in cui viene misurato. Inoltre in termini reali l'apprezzamento non ha finora pienamente compensato il deprezzamento occorso tra il 1996 e il 2000.
Due le conclusioni del rapporto comunitario. La prima: la fluttuazione del tasso di cambio effettivo reale (che riflette sia gli andamenti del tasso effettivo nominale che il differenziale di inflazione nei confronti dei partner commerciali) ha un impatto sulle esportazioni piuttosto rapido ma "modesto": un apprezzamento dell'1% riduce il livello delle esportazioni extra eurozona dello 0,2% dopo un anno e di 0,25% dopo due anni. Fatti i debiti conti tra il 2001 e il 2006 la crescita dell'export risulta diminuita dello 0,6%. "Non è irrilevante", scrive la Dg affari economici di Bruxelles, ma va commisurato alla crescita delle esportazioni di 0,5% annuo per tutta la seconda metà degli anni novanta. Non solo: l'apprezzamento sembra aver avuto un impatto "solo modesto" sui profitti degli esportatori.
Naturalmente non tutti i paesi reagiscono allo stesso modo: dal 2000 le esportazioni italiane e irlandesi sono risultate piatte, mentre Germania e Austria hanno incrementato i loro volumi del 50-60%. In ogni caso, pur usando la stessa moneta degli altri Germania, Austria, Olanda, Finlandia, Spagna hanno visto crescere le loro esportazioni extra eurozona più di quanto siano cresciute le esportazioni nell'area.
Seconda conclusione: il grado di esposizione dei singoli paesi alle fluttuazioni dell'euro incide poco sul diverso andamento delle loro esportazioni extra eurozona. In altre parole, il cambio non incide in misura determinante sui cambiamenti nella competitività dei vari paesi che, invece, sono determinati "prioritariamente" dalle condizioni dei costi interni.
Va tenuto presente, in ogni caso, che la competitività prezzi/costi non è l'unico fattore a determinare l'andamento delle esportazioni (nei calcoli di Bruxelles spiega meno del 60% delle differenze tra i vari paesi). Vanno considerati, infatti, la composizione settoriale e geografica dell'export e i fattori non di prezzo quali miglioramenti della qualità dei prodotti e l'innovazione tecnologica.

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