La prossima settimana si riuniscono a Bruxelles i capi di stato e di governo europei per fare il punto della strategia di Lisbona, quell'insieme di obiettivi per migliorare la competitività dell'economia che comprendono l'aumento del tasso di occupazione al 70% (oggi al 66%) e l'aumento delle spese in ricerca e sviluppo al 3% del prodotto (ora sotto il 2%).
L'Europa non parte da zero: 7 milioni di posti di lavoro creati in due anni, calo della disoccupazione al 7%, ripresa della crescita della produttività dopo cinque anni di magra (+1,5% nel 2006 contro una media di 1,2% tra il 2000 e il 2005). Ma con la sola inerzia gli obiettivi del 2010 non saranno centrati. Per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo, leva per l'attività produttiva, si raggiungerà a malapena il 2,6% del pil . Ben altri sono i valori negli Stati Uniti (2,5%), in Giappone (oltre il 3%), della Cina, passata dallo 0,5% dieci anni fa e arrivata all'1,5%.
Non è l'Europa, che sta cercando di raggiungere gli Usa, è la Cina che sta raggiungendo velocemente l'Europa. Già nel 2006 ha superato il Giappone nella classifica dei paesi che investono di più in R&S e si trova al secondo posto dietro gli Usa. E l'Asia nel suo complesso ha già superato il Nordamerica.
Negli ultimi dieci anni l'intensità della spesa in ricerca e sviluppo (in rapporto al prodotto) in Europa è aumentata di pochissimo e un vero salto lo hanno fatto soltanto Finlandia, Austria, Danimarca e Svezia.
In Francia, Olanda e Regno Unito è perfino diminuita.
In Italia si spende circa la metà della media Ue.
Tutto ciò legittima il dubbio che gli obiettivi di Lisbona su R&S siano eccessivamente ambiziosi e comunque abbiano scarsa relazione con la specializzazione industriale. E' molto interessante a questo proposito una recente e provocatoria analisi di Bruegel, ‘think tank', nella quale vengono posti interrogativi molto semplici: un paese come il Lussemburgo, specializzato nei servizi finanziari, ha davvero bisogno di aumentare la spesa in R&S?
Un'economia specializzata nel turismo, nella moda, nei servizi e negli alimentari deve avere necessariamente una intensità di R&S pari a quella di un altro specializzato nella farmaceutica, nell'ingegneria civile o nell'industria biotecnologica? Tenendo conto della propria specializzazione industriale (tlc), la Finlandia ha risultati davvero così strabilianti?
Ci si chiede, in sostanza, se ha senso porre un obiettivo valido per tutti indipendentemente dalla specializzazione di quella o quell'altra economia e quando non si ha una chiara idea di quale direzione si dovrà prendere in futuro per stare a galla. D'altra parte la spesa in R&S non ha subito grandi cambiamenti proprio perché è la specializzazione industriale a non essere cambiata profondamente.
Quanto ai fattori che possono stimolare gli investimenti in R&S ce ne sono almeno tre sui quali far leva: sfruttare fino in fondo la dimensione del mercato unico (tante lingue ma regole comuni o compatibili per tutti i paesi); brevetto europeo (validare un brevetto in tredici paesi costa oltre ventimila euro contro 1800 negli Usa e 1500 in Giappone); potenziare la ricerca accademica e l'educazione. Sarebbe infatti meglio parlare di investimenti nella conoscenza (R&S più istruzione secondaria e terziaria). Qui gli Usa continuano a
battere tutti con il 6,6% del pil, seguono Corea del Sud con il 5,8%, Giappone 5%, Canada 4,8%. Distanziati Germania con il 3,9%, Francia e Regno Unito con il 3,7%, l'Italia con il 2,4% (dati Ocse 2006)