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Per un nuovo inizio. Il discorso di Obama ai musulmani

di Barack Obama

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4 giugno 2009
(Reuters)
Il discorso di Obama (in inglese)

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L'Islam ha avuto una parte di grande rilievo nella storia americana: la prima nazione a riconoscere il mio paese fu il Marocco. Il nostro secondo presidente, John Adams, firmando il Trattato di Tripoli nel 1796 scrisse: "Gli Stati Uniti non hanno di per sé alcun motivo di ostilità nei confronti delle leggi, della religione e dello stile di vita dei musulmani". Dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno valorizzato il mio paese, combattuto nelle guerre, prestato servizio nel governo, lottato per i diritti civili, fondato aziende, insegnato nelle nostre università. Hanno avuto la meglio in molteplici sport, vinto Premi Nobel, costruito i nostri edifici più alti e acceso anche la Torcia Olimpica. Quando poco tempo fa il primo musulmano americano è stato eletto al Congresso degli Stati Uniti, ha giurato di difendere la nostra Costituzione sullo stesso Corano che uno dei nostri Padri Fondatori - Thomas Jefferson - conservava nella propria biblioteca.

Dunque io ho conosciuto l'Islam in tre continenti, prima di arrivare qui, dove esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. La mia esperienza ispira la mia opinione che un rapporto tra America e Islam deve basarsi su ciò che l'Islam è, non su ciò che non è. Credo che rientra negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti battermi contro ogni stereotipo negativo dell'Islam, ovunque esso si manifesta.

Questo stesso principio deve applicarsi però anche alla percezione dell'America da parte dei musulmani: proprio come i musulmani non rientrano tutti in un generico stereotipo, così l'America non rientra in quel generico stereotipo di impero interessato solo al proprio vantaggio.
Gli Stati Uniti sono stati uno dei più importanti luoghi di origine del progresso che il mondo abbia mai conosciuto: nacquero con una rivoluzione contro un impero; furono fondati sull'ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare concretezza a queste parole gli americani hanno versato sangue e si sono battuti per secoli, anche fuori dai loro confini, in ogni angolo del mondo; sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni zona del pianeta, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum, ovvero "Da molti, uno".

Si è molto discusso sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse mai essere eletto presidente degli Stati Uniti, ma la mia non è una storia unica: il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è anor oggi vivo per chiunque arrivi nella nostra patria, e ciò vale anche per i quasi sette milioni di musulmani americani che nel nostro paese hanno istruzione e stipendi più alti della media. La libertà in America anche la libertà di professare la propria religione: infatti in ogni Stato americano c'è almeno una moschea, e in totale se ne contano oltre 1.200.
Questo spiega per quale motivo il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per difendere il diritto delle donne e delle ragazze a indossare l'hijab e a punire quelli che vorrebbero proibirlo.
Non si discute: l'Islam è parte integrante dell'America, e io penso che l'America custodisca dentro di sé la verità che, a prescindere dalla razza, la religione, la posizione sociale, tutti condividiamo le stesse aspirazioni: quella di vivere in pace e sicurezza, di volere un'istruzione e un lavoro decoroso, di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Questo è ciò che abbiamo in comune e queste sono le speranze di tutto il genere umano.

Saper riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è solo l'inizio di quello che dobbiamo intraprendere. Le parole da sole non bastano a dare risposte concrete alle necessità dei nostri popoli che potranno essere soddisfatte qualora negli anni futuri sapremo agire con coraggio, se comprenderemo che le sfide che dobbiamo affrontare ci riguardano tutti e che se falliremo e non riusciremo a prevalere, ne subiremo tutti le conseguenze.
Abbiamo scoperto da poco che quando un sistema finanziario si indebolisce in una nazione, ne soffre la prosperità di tutte; che quando una nuova malattia contagia un uomo solo, tutti gli uomini sono in pericolo; quando una nazione vuole procurarsi una bomba atomica, il rischio di attacchi nucleari si moltiplica per tutte le nazioni; quando violenti estremisti agiscono in una striscia montagnosa lontana, la gente è a rischio anche al di là degli oceani; e quando degli innocenti disarmati sono sterminati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne infangata. Questo significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta.

Questa è la responsabilità di ciascun essere umano. Si tratta di certo di una responsabilità difficoltosa di cui farsi carico: la storia umana è spesso stata tutto un susseguirsi di guerre tra nazioni e tribù che si dominavano per il loro tornaconto. Ma in questa nuova era, un atteggiamento simile si rivelerebbe autodistruttivo. Considerando quanto dipendiamo gli uni dagli altri, un eventuale ordine mondiale che dovesse sollevare una nazione o un gruppo di persone al di sopra di tutti gli altri sarebbe fatalmente destinato all'insuccesso. A prescindere da ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri: i nostri problemi dobbiamo affrontarli collaborando, diventando soci, condividendo tutti insieme uno stesso progresso. Questo non vuol dire che dovremmo ignorare le cause e le tensioni, ma anzi, esattamente il contrario: dobbiamo affrontare le tensioni senza attendere oltre. E' con questo spirito che vorrei quindi passare a parlarvi quanto più chiaramente possibile di alcune questioni particolari che credo che dovremmo affrontare tutti insieme.

  CONTINUA ...»

4 giugno 2009
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