NEW DELHI – La crisi politica che da oltre tre settimane rischia di paralizzare la Thailandia ha vissuto una delle sue giornate più drammatiche quando il governo ha dichiarato lo stato di emergenza nella capitale Bangkok. La decisione di mettere fuori legge gli assembramenti di più di 5 persone e di affidare all'esercito poteri straordinari è stata presa dopo che un gruppo di manifestanti in camicia rossa aveva sfidato la polizia e sfondato i cancelli del parlamento.

La scelta dei dimostranti di alzare il livello dello scontro aveva preso in contropiede il governo al punto da spingere alcuni ministri ad abbandonare il parlamento ormai assediato a bordo di un elicottero per paura di essere aggrediti dai dimostranti. Una volta conquistato il cortile del parlamento, e avuta conferma della riluttanza a ricorrere alla forza da parte della polizia, le camicie rosse si sono ritirate, facendo ritorno nell'elegante quartiere commerciale di Bangkok che hanno scelto come base delle proprie operazioni.


Dopo numerose giornate concluse con il nulla di fatto, quella di mercoledì ha almeno segnato un passo in avanti verso la soluzione, qualcunque essa sia, della crisi. Se nella prima parte della giornata era parso che i dimostranti fossero riusciti a segnare un punto a loro favore, la proclamazione in serata dello stato d'emergenza sembra rimescolare le carte. Ora il primo ministro Abhisit Vejjajiva si trova nella scomoda posizione di dover scegliere tra la linea dura (ovvero disperdere i manifestanti con la forza) oppure cedere alle loro proteste (e indire nuove elezioni). Prevedere quale sarà la sua decisione è difficile, ma pare ogni giorno più evidente che la tattica attendista osservata in queste settimane ha ormai cessato di logorare i dimostranti e iniziato invece a incrinare la credibilità del governo.

Le camicie rosse chiedono lo scioglimento delle camere e nuove elezioni, perché non riconoscono la legittimità del governo guidato dal primo ministro Vejjajiva. Il 45enne leader politico formatosi a Oxford è salito al potere nel dicembre del 2008 dopo che la maggioranza uscita vittoriosa dalle ultime elezioni era stata dissolta, in maniera molto controversa, per via giudiziaria. Il sogno delle camicie rosse è di fare rientrare in patria l'ex premier Thaksin Shinawatra, deposto nel 2006 da un colpo di stato e oggi latitante all'estero con l'accusa di corruzione e abuso di potere. Thaksin è considerato il regista delle proteste di piazza di queste ultime settimane nonché l'animatore della coalizione di governo scalzata dai giudici quindici mesi fa.

Tra i fattori che rendono indecifrabile l'immediato futuro della seconda economia del Sud Est Asiatico ci sono anche i ruoli giocati nella crisi dalle due istituzioni più importanti del paese: la monarchia e l'esercito. La prima, nonostante sia trasversalmente popolare, in passato non ha fatto mistero di essere più vicina ai partiti attualmente al governo rispetto a quelli all'opposizione che sostengono i manifestanti. In queste ultime settimane però il suo peso politico sembra essere diventato meno determinante che in passato: in parte perché l'amatissimo re, l'ottantaduenne Bhumibol Adulyadej, da mesi fa la spola tra la sua residenza ufficiale e un ospedale della capitale; e in parte perché il suo erede apparente, il principe Maha Vajiralongkorn, è molto meno popolare di lui.

L'esercito in questo momento si presenta come un'entità non meno enigmatica della monarchia. Se è vero che è stato proprio un colpo di stato militare, nel settembre del 2006, a deporre Thaksin e gettare le basi per la crisi che si sta trascinando ancora oggi, è fuori di dubbio che dopo l'ultima deludente esperienza di governo i generali potrebbero decidere una linea meno interventista che in passato. Anche l'attribuzione di poteri speciali alle forze armate decisa mercoledì sera non sembra poter essere un elemento risolutivo, vista la manifesta riluttanza del primo ministro a ricorrere alla forza.

Sullo sfondo della crisi politica si stagliano i problemi che affliggono l'economia thailandese. Se è vero che dai settori più orientati all'esportazione stanno venendo risultati incoraggianti dopo un biennio difficile, è innegabile che il turismo, che contribuisce quasi il 7% del prodotto interno lordo del paese, non sta attraversando un momento facile. Dall'inizio della crisi gli arrivi dall'estero sono calati del 10% e si stima che le perdite ammontino già a oltre 300 milioni di dollari. Nel centro della città diversi alberghi di lusso sono semivuoti, mentre alcuni di quei centri commerciali che fanno di Bangkok una delle capitali mondiali dello shopping continuano a restare chiusi.

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