A guardare, ora, le sue foto scattate ad Angkor Wat non sembra vero che Fabio Polenghi sia morto colpito da un proiettile per le strade di una Bangkok in fiamme. Quanto è distante la quiete magica e misteriosa della perduta capitale Khmer dall'inferno di fuoco e morte che sembra aver inghiottito la dolce "Città degli angeli"? Migliaia di anni luce , forse. Oppure pochissimo. Lo spazio di un confine sottile che, da sempre, divide i due volti del Sud-est asiatico, uno ieratico e l'altro feroce. La spiritualità e la violenza. La Cambogia li conosce benissimo entrambi. Gli antichi templi buddhisti, gli onnipresenti monaci con le vesti color arancio da un lato, la follia sanguinaria di Pol Pot dall'altro.

Nei resti della leggendaria città Khmer, inghiottita dalla foresta e poi resa senza che la natura rinunciasse al suo dominio, c' è scritto tutto questo. Nei bassorilievi di Angkor sono disegnate la vita e le morte. Ci sono le torture, le battaglie come macabre profezie. E'scolpita la storia stessa dell'umanità.

Anche le foto di Polenghi sembrano racchiudere tutto questo. Vitalità e dolore, gioia e sofferenza. Scatti che ritraggono il mondo effimero e luccicante della moda, del glamour accanto ad immagini delle favelas brasiliane. E, ancora, il viaggio attraverso e i paesi e lo sport di "Steppin Out", il suo ultimo, affascinante lavoro che coniugava due grandi passioni. E che riusciva a scovare la bellezza, anche là dove di solito nessuno la vede. Fotografie in bianco e nero che spiano l'incanto oltre la miseria. Una bambina asiatica concentrata, rapita dall'allenamento per la danza, due uomini che corrono soli lungo una strada sterrata, una partita di calcio improvvisata tra le capanne di bambù di un villaggio. Non era, insomma, Fabio Polenghi soltanto un reporter di guerra.

Gli scatti realizzati due anni fa ad Angkor testimoniano l'armonia, i segreti, la speranza, la povertà. Il cuore di un'area del mondo capace di conquistare per sempre chiunque ci metta piede. I volti sereni dei giovani monaci che si stagliano davanti alle guglie diroccate, gli specchi d'acqua, le radici gigantesche che avviluppano quel che rimane di questa città fantasma a metà strada tra El Dorado e Atlantide. E poi il viso dei bambini, i loro sorrisi venati di una precoce malinconia incorniciati dai colori intensi , quasi irreali della Cambogia.

Perché, allora, Fabio Polenghi, un uomo che viene descritto da chi lo conosceva come una persona prudente, è morto in questo modo per le strade di Bangkok? Quale molla lo ha spinto sempre più avanti, fino ad incrociare il proiettile che lo ha abbattuto? Morire da solo, perché in quel momento nessuno può essere davvero con te, nemmeno i colleghi che cercano disperatamente una moto o qualsiasi altro mezzo per portarti nell'ospedale più vicino. Solo e lontano da casa.

Polenghi viveva a Milano ma si trovava nel sud est asiatico da circa tre mesi. Ultimamente, secondo alcuni conoscenti, faceva spesso base a Delhi. Lavorava dal 2004 come free lance, ed era molto conosciuto tra i suoi colleghi. Aveva lavorato per importanti agenzie e testate, prime fra tutte Grazia Neri (dalla quale era uscito prima del fallimento), Vanity Fair, Vogue, Marie Claire, Elle e altre, come risulta da un suo curriculum postato su Internet.

Se ci pensiamo bene, è così che vive un fotoreporter
. Spesso è "dall'altra parte del mondo" e distante da tutto e da tutti. Alla ricerca del grande scatto, delle emozioni, della verità. Di tutto quello che ci lascia a bocca aperta quando, sfogliando una rivista, ci imbattiamo in alcune fotografie che sprigionano una vera magia. Per catturare quell'attimo, quell'istante terribile o meraviglioso, il fotografo spende giorni, spesso mesi. Lo insegue perfino per anni, per una vita intera, sacrificando molte cose, a volte tutto.

Non una vita di privazioni e di soli sacrifici, per carità. Lasciando perdere la retorica e i clichè, si vedono i due estremi. Un'esistenza eccitante, fatta di viaggi, piena d'adrenalina ma anche solitaria, costellata di lunghe e monotone attese. Perché si deve partire anche quando non si vuole e il lavoro non è soltanto romantico come ci hanno insegnato al cinema. Ma Polenghi, dice che lo conosceva bene, questo mestiere lo amava.

Robert Capa, forse il più celebre dei grandi reporter di guerra arrivò a fotografare quasi la morte stessa. Il momento esatto nel quale il soldato dell'esercito repubblicano spagnolo viene colpito dal proiettile dei franchisti. E anche lui concluse la sua avventura proprio in Indocina, saltando in aria in un campo minato. Bisogna andare sempre più vicini alla battaglia, diceva Capa. Ma non è così soltanto in guerra e non è solo una questione fisica. Bisogna avvicinarsi al dolore, alla miseria, inseguire l'incanto o la bellezza come in un'infinita battuta di caccia, per scattare fotografie davvero immortali. Riuscirci è un dono, ma è un dono che va coltivato.

Polenghi aveva girato una settantina di paesi in 29 anni di lavoro con la macchina a tracolla. Potrebbe, allora, venire naturale chiedersi ancora una volta perché è andato a morire proprio a Bangkok, dove forze misteriose (almeno agli occhi degli occidentali) agitano una strana guerriglia. Dove le barriere ideologiche non sono così nette, dove in fondo non si capisce chi siano i buoni e chi i cattivi.

Non fatevi questa domanda. Sarebbe come sezionare la vita del reporter, un'esistenza spesso appesa ad un filo sottile. Da una parte la grande foto, dall'altra perfino la morte . Ricordatevi piuttosto, quando vedrete certe immagini che vi rimarranno nel cuore, quando un solo scatto vi commuoverà o vi farà indignare, che dietro a quella pagina c'è sempre un uomo. Soprattutto, quando una foto vi regala uno spicchio di verità che veniva nascosto. Quando scoprite qualcosa e pensate che grazie anche ad un solo scatto vivete in un mondo un po' più libero. Così, quando vi capiterà tra le mani una fotografia di queste, da domani, ricordatevi anche di Fabio Polenghi.


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