Tra le grandi questioni del Paese non affrontate, c'é quella demografica dovuta all'accentuato invecchiamento della popolazione (bassa natalità e crescita della longevità). In Europa, tra le grandi nazioni, riguarda anche la Germania. Si è molto scritto sul tema e sulla ricca tastiera delle conseguenze. Esso comporta, ad esempio, percentuali sempre maggiori di pensionati e quote sempre minori di popolazione attiva e, soprattutto, incrina pericolosamente il patto generazionale per le risorse ingenti destinate alla vecchiaia e quelle scarse per l'istruzione, al punto che soltanto il 19% dei giovani italiani, tra i 25 e i 34 anni, possiede un diploma di laurea (contro il 40% di Gran Bretagna e Francia).

I giovani sono diventati una generazione invisibile non solo per "inferiorità numerica" rispetto agli over 65, ma anche per le loro aspettative depresse di ascesa sociale. Del resto, in maggioranza arriviamo a retribuzioni più soddisfacenti solo in età adulta e, solo dopo i 50-60anni, poche migliaia di noi vengono selezionati tra le élite. È per questo che non solo abbiamo leader politici attempati, ma anche i nostri medici, artisti, professionisti e, persino, showmen sono over 65. Così funziona la gerontocrazia, sia in Italia che in Germania, nei due paesi più vecchi d'Europa. Certo avere oggi 25 anni non è come trenta anni fa, quando già a 26 avremmo avuto lavoro, matrimonio e primo figlio. Mentre oggi, in media si entra nel lavoro a circa 26 anni, ci si sposa a 30-32, e si ha il primo figlio a 32-34.

La soluzione di policy – sulla quale da più parti si conviene per adeguarsi a questa metamorfosi dei cicli vitali simbolici – è innalzare l'età media effettiva del pensionamento; ma, in tempi di crisi, si rischia di diminuire i pensionati senza alcun beneficio per la disoccupazione giovanile, volata al 28%. In effetti, un discorso di labour policy in sostegno dei giovani, oggi, è complicato, un pò perché la realtà caricaturale dei "bamboccioni" lascia intendere che la radice del "male" sia la gioventù stessa. Più seriamente, perché il mercato del lavoro, nel complesso, scricchiola pericolosamente, come effetto della crisi e si torna perciò a parlare di jobless growth e di un necessario recupero di produttività.

Per superare la nostra idiosincrasia gerontocratica – che sotto sotto scredita i giovani per accreditare i più anziani – dovremmo sostenere, oltre il diritto allo studio, politiche d'ingresso dei nostri giovani nel mondo del lavoro e dell'impresa. Anzitutto, per mettere in valore i più meritevoli e competenti tra essi. Da un canto, potremmo uniformare il percorso educativo a quello di altri paesi, riducendo di un anno la scuola superiore. Ci si diplomerebbe – in regola – a 18 anni, ci si laurerebbe a 21 e si potrebbe conseguire una laurea magistralis a 23. Riusciremmo in tal modo a spingere (non è automatico) i nostri giovani ad anticipare un anno il loro inserimento nel lavoro. Sarebbe un primo passo per promuovere una strategia di medio periodo per un ingresso anticipato nel lavoro dei nostri giovani, in specie con istruzione superiore. D'altro canto, occorre un vero e proprio piano di borse di lavoro e di supporto a business plan di giovani laureati, strumenti che potrebbero essere erogati attraverso il sistema universitario alle aziende e agli enti interessati ad avere per due anni un ingegnere a metà prezzo.

Le stesse università potrebbero valutare e incentivare business plan di giovani intenzionati all'autoimprenditorialità. Queste policies, per avere un impatto significativo, richiederebbero una cospicua dotazione di risorse pubbliche da ricavare con risparmi sui costi del ceto politico istituzionale. Occorrerebbe dunque un intervento bipartisan in grado di creare le basi per rinsaldare un patto generazionale, simbolicamente accompagnato dalla riduzione dei privilegi del ceto e dell'élite politica. Sostenendo il nostro brain power, fresco di laurea - nella professione e nell'impresa, nel terziario e nell'industria - si darebbe un gran bel segnale al Paese, dimostrando di sapere adottare una direzione per "resettare" la nostra marcia, condizionata dalle trasformazioni socio-demografiche di lungo periodo, ma anche "intruppata" nella crisi economica internazionale. In secondo luogo, avremmo creato un doppio incentivo: allo studio (alla laurea di primo livello) e al lavoro. In terzo luogo, faremmo un passo avanti anche nel caratterizzare l'università come protagonista di un mercato del lavoro in rapida evoluzione dal labour power al brain power.

 

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