Edoardo Nesi, con il suo nuovo Storia della mia gente, usa la chiave dell'epos ironico per descrivere il disfacimento di un sistema industriale: il distretto tessile di Prato. A cominciare dai fondatori del lanificio della sua famiglia: Temistocle e Omero, «questi improbabili nomi d'eroi greci». Su una foto del 1926 il primo compare «con l'occhio fosco e il cappello sulle ventitré», l'altro ha «una camicia bianca, un corpetto e dei gran pantaloni larghi». Nesi, che con i suoi libri si inserisce nella tradizione della letteratura industriale italiana, riprende il filo del racconto - vitalistico senz'altro, forse felice e di certo malinconico - delineato sei anni fa in L'età dell'oro. Se, allora, si spiegava cosa era stato nella provincia italiana il benessere, grasso e non privo di piccinerie umane, adesso si osserva il collasso. E, Nesi, guarda dentro al cratere."
Un cratere che conosce bene dato che lui, rappresentante della terza generazione della T. O. Nesi & Figli, a Prato ha lavorato fino alla cessione della ditta: «Nel settembre del 2004, il 7 settembre del 2004, ho venduto l'azienda tessile della mia famiglia», scrive nell'incipit con una sottolineatura del tempo che ricorda il primo Fitzgerald, immediato omaggio a un maestro più volte citato, nelle pagine di divagazioni che si inseriscono in un telaio fatto di tessuti e di viaggi all'estero, concorrenza cinese e rancori verso la politica. Dunque, di questo libro è difficile comprendere la natura nella sua sospensione fra il reportage in presa diretta e le pagine più strettamente letterarie. Poetici i dialoghi con la figlia: «Ordiniamo. Io un martini e lei un frullato di pesca, e Angelica mi chiede: Scusa babbo, ma perché non stiamo guardando il tramonto? Cioè, perché la Capannina è voltata verso i monti e non verso il mare? Le rispondo che non lo so, ma è vero: siamo rivolti verso le Apuane, lei e io, e il marmo è tinto del rosa di quello che dev'essere un tramonto formidabile che non vediamo perché avviene alle nostre spalle, oltre la mole della Capannina».
Crudi i resoconti sulla fine di un modello italiano. Parlando di sé, Nesi parla della sua comunità: imprenditori e operai di «quella parte d'Italia benedetta da Dio» che da materiali poveri ha creato la ricchezza, trasformando gli stracci in buoni tessuti e dando vita a qualcosa che assomiglia a un capitalismo morale, «per cui gli operai più capaci e volenterosi che decidono di mettersi in proprio e diventare imprenditori possono provare a farlo con una certa possibilità di successo». Poi, però, qualcosa cambia, avviando quella che Nesi chiama la fase terminale della storia della piccola impresa tessile italiana. Nella Prato boccheggiante, tutti hanno la consapevolezza che «lo sviluppo miracoloso delle loro aziende era stato il risultato di una serie di circostanze straordinariamente favorevoli e irripetibili, una lunghissima e fortunatissima cavalcata sull'onda di una crescita epocale che era nata dalle rovine del dopoguerra e aveva trasportato tutti, capaci e incapaci, industriali e dipendenti, ben oltre i loro limiti». Parole semplici che sintetizzano anni di dibattito fra economisti impegnati a capire come mai, nella Prato studiata dal decano dei distretti Giacomo Becattini e in mille altri snodi della Terza Italia o del Nordest, il calabrone italiano, che non doveva volare, invece per molti anni è riuscito a farlo.
Allo stesso tempo, però, in questa gente e in queste pagine corre la rabbia e si accumula il rancore. Non un sentimento sordo. In fondo, l'io narrante è stato a Harvard in estate ed è una persona innamorata della letteratura americana, che in ditta pensava ai maglioni di lana dei personaggi di Fitzgerald o al lino delle camicie di Hemingway quando era in Africa a cacciare gli elefanti. Il sentimento ragionato, però, sfocia in un anti-elitarismo che, nell'Italia di oggi, è una delle condizioni emotive maggioritarie: «Qualche anno fa – lavoravo ancora in ditta, quindi dev'essere stato il 2003 o il 2004 – scrissi una lettera a Francesco Giavazzi, economista di punta ed editorialista del Corriere della Sera, forse il più acerrimo sostenitore italiano dell'infinita bontà della globalizzazione, colui che più di ogni altro nei suoi secchi articoli puntuali come la morte sprezzava l'incapacità di grandissima parte dell'industria italiana di adattarsi alle nuove regole di mercato imposte da quella che lui considerava la grande panacea dell'apertura mondiale degli scambi commerciali». Dunque, in un involucro letterario con riferimenti culturali alti, prendono forma gli umori dei piccoli e dei medi imprenditori che, storicamente, si sono sempre sentiti altra cosa rispetto all'establishment italiano. Fulminante il giudizio di una stagione, quella delle privatizzazioni e dell'unione monetaria, in cui a finire dietro al banco degli imputati non ci sono soltanto i politici, ma anche gli economisti. In merito all'unione monetaria, punto di non ritorno per una economia fondata sulle svalutazioni competitive della vecchia liretta, dice: «Bisognava trattare, trattare e trattare, non stancarsi di portare le nostre ragioni, e mandare a trattare quelli bravi davvero – quelli esperti, duri, capaci, quelli che Sun Tzu non l'hanno letto e von Clausewitz non sanno nemmeno chi è, ma i loro insegnamenti li hanno incisi nel cuore e nell'anima; quelli che sentono istintivamente quando nelle trattative arriva il momento di tirare gli schiaffi e quando invece bisogna sapersi piegare come il giunco: i figli di puttana, insomma, non i professori, non quei conigli bagnati che si facevano zittire a scapaccioni ogni volta che provavano ad aprir bocca, umiliati alla sola menzione di quel colossale debito pubblico che pure avevano visto lievitare ogni anno senza riuscire a far nulla, e che a Bruxelles gli veniva continuamente sventolato davanti agli occhi come il marchio dell'infamia».

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Storia della mia gente
Edoardo Nesi
Bompiani, Milano, pagg. 256, €14,00.

 

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