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Le major latitano (o si nascondono), gli indipendenti scalpitano

di Boris Sollazzo

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5 marzo 2010

E' tempo di crisi, e lo è anche al cinema. Nonostante si parli di quotare in borsa i singoli film (!), nonostante alcuni attori, ma soprattutto alcuni registi, tra sponsorizzazioni e investimenti diversificati, sembrino delle multinazionali, la situazione è difficile anche nel mondo della Settima Arte. Anche a Hollywood, non a caso descritta come l'inferno nell'ultimo bel film di Chris Columbus, Percy Jackson e gli dei dell'olimpo- Il ladro di fulmini. E così i dieci film che si contenderanno l'Oscar si ritrovano a raggiungere insieme 600 milioni di dollari circa di budget (e due terzi, marketing escluso, si racchiudono in Avatar e Up), e addirittura i loro 10 protagonisti superano a malapena quello che fino a poco tempo fa poteva essere considerato il cachet di una star d'alto livello: venti milioni di dollari. Quasi tutti, che siano assoldati da major o da indipendenti, infatti, hanno accettato per le loro interpretazioni il minimo sindacale, per poi, magari, partecipare agli utili sempre più rari. Non è il caso di Avatar che con i suoi 237 milioni di budget e 150 di marketing ha impegnato in maniera determinante la Twentieth Century-Fox Film Corporation, anche se comunque il cast rappresenta una voce risibile nel bilancio finale della pellicola. Cosa che, come è ovvio, essendo un film d'animazione che necessitava solo di doppiatori, sia pur illustri, vale anche per Up, che ha fatto investire 175 milioni di dollari alla corazzata Pixar Animation Studios. In buona salute e speranzosi anche i fratelli Weinstein, che dopo aver assistito alla messa in vendita (a prezzi scontati) della loro amata Miramax (loro la vendettero in tempo, fortunati e intelligenti), confidano in Bastardi senza gloria, che con le sue coproduzioni e 70 milioni di dollari si aggiudica il terzo gradino del podio, mostrando una certa oculatezza viste le risorse notevoli impiegate nel film. E Tarantino ha avuto l'appoggio determinante di Universal Pictures, che è stata decisiva- con la "sorella" Paramount Pictures (che ha vinto il primo Oscar della storia)- anche per Tra le nuvole, acuto pamphlet contro il capitalismo (anche e forse soprattutto delle multinazionali, adorabile contraddizione), che si ritrova star di prima grandezza (Clooney e Farmiga su tutti) a prezzo di saldo se è vero che l'opera di Jason Reitman è rimasta dentro un budget di "soli" 25 milioni di dollari. Sony è dentro la sorpresa District 9, 30 milioni di dollari per il film voluto da Peter Jackson investiti insieme ad altri produttori attraverso la mitica Tristar Pictures, confermando una politica di investimenti sempre più agili e pensati, rispetto al passato (senza disdegnare, comunque, i kolossal sicuri, da Spiderman al Codice da Vinci e annessi). Ma l'indicazione di mercato più forte è la potenza del comparto indipendente che copre metà dei film candidati, da The blind side che grazie a Sandra Bullock (garanzia al botteghino, almeno negli Usa) ha raccolto 29 milioni di dollari, ai più poveri Hurt Locker (15 milioni di dollari) e Precious (10, buona parte raccolti dal regista con la sua casa di distribuzione) ai fratelli Coen (solo 7 milioni di dollari, in cui entra anche il tornado finale!) che vanno a pescare anche oltre oceano e che possono contare sulla professionalità di due delle case di produzione migliori, sia pur non di prima fascia, come Working Title Films e Relativity Media. Orgogliosamente inglese infine il "piccolo" An Education, 7,5 milioni di budget e una partecipazione pesante della BBC Films. Insomma, dall'Oscar a Crash di Paul Haggis in poi, le major si allontanano sempre di più da festival internazionali (Cannes esclusa) e Oscar, lasciando il campo a quei produttori indipendenti che continuano a seguire la lezione dei fratelli Weinstein (che bene fecero anche al nostro Benigni): strategie aggressive di lobbying per avere statuette, consensi e rilanciare in sala, e non solo, le loro opere. Meno care, ma spesso migliori.

5 marzo 2010
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