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Se a Pechino finisce l'era del lavoro low cost

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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2010 alle ore 14:14.
L'ultima modifica è del 06 giugno 2010 alle ore 14:23.

Per ammirarne tutta la grandiosità bisognerebbe spiccare il volo con uno Space Shuttle. Già, perché dallo spazio, nella notte siderale, si possono scorgere a occhio nudo tutte le grandi stelle terrestri che dominano l'Asia Orientale.

Tokyo, Seul, Taiwan sono le più estese. Ma tra queste l'astro più brillante, quello che scatena la luce più intensa e rifulgente dell'intero Far East, non è una metropoli, bensì un agglomerato di fabbriche, strade, porti, città, opifici, magazzini, villaggi, aeroporti: il Delta del Fiume delle Perle.

La supernova del sud della Cina è il più grande bacino industriale del mondo. Fu qui che, una trentina di anni fa, Deng Xiaoping girò il volante della storia cinese sulla via del capitalismo. «Andate e arricchitevi, perché la ricchezza è gloria», disse l'architetto del nuovo corso cinese, aprendo la stagione delle riforme che ha condotto il Dragone a diventare la seconda potenza economica e il primo paese esportatore del pianeta.

Nelle ultime settimane, la supernova cinese è salita prepotentemente alla ribalta delle cronache mondiali per ben due volte. La prima per la drammatica catena di suicidi (dieci operai si sono tolti la vita) che a Longhua ha sconvolto Foxconn, l'azienda taiwanese di componentistica elettronica che produce parti per l'iPhone e l'iPad di Apple. La seconda per gli scioperi selvaggi che per giorni hanno paralizzato lo stabilimento di Foshan della Honda.

In entrambi i casi, il management ha tentato di placare il malcontento della base operaia utilizzando il sistema più efficace nella storia delle relazioni industriali, cioè mettendo mano al portafoglio. Per porre fine allo scontento serpeggiante tra le mura della sua città-fabbrica, Foxconn ha aumentato i salari dei dipendenti del 30%. E Honda, per riportare le maestranze alle catene di montaggio, ha ritoccato gli stipendi all'insù del 24%.

Il tempo dirà se le generose gratificazioni concesse in busta paga dai due colossi industriali stranieri ai loro dipendenti oltre la Grande Muraglia saranno sufficienti a riportare la calma, l'autocontrollo e la serenità nei due stabilimenti dove la situazione appare ancora piuttosto fluida. Quel che è certo, tuttavia, è che i robusti aumenti retributivi elargiti in simultanea da Honda e Foxconn rischiano di aprire una nuova stagione nelle politiche salariali in tutto il Guangdong.

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«Ovviamente, dopo quanto accaduto, molte imprese straniere sono preoccupate. Ciononostante, non credo che queste ultime, che peraltro già pagano stipendi superiori rispetto alle loro concorrenti cinesi, siano disposte a concedere nell'immediato futuro aumenti salariali nell'ordine del 20 o 30%», avverte Alberto Vettoretti, presidente della Camera di Commercio Europea nel Delta del Fiume delle Perle e direttore generale di Dezan Shira & Associates.

«Il Delta è grande, ma il tam tam operaio corre velocissimo di fabbrica in fabbrica e ormai qui nella zona tutti sanno che, di fronte alle pressioni dei lavoratori, Honda e Foxconn hanno finito per calare le braghe concedendo aumenti salariali fuori da ogni logica contrattuale - dice un imprenditore straniero che produce arredamento a Dongguan -. Con queste premesse, è ragionevole aspettarsi presto altre rivendicazioni selvagge in altre fabbriche della zona».

Insomma, dopo trent'anni di pace sociale, gli operai del grande Delta che con le loro braccia hanno costruito le fortune del made in China nel mondo chiedono di essere pagati non di più, ma molto di più. E le aziende, soprattutto quelle straniere che sotto il profilo negoziale e contrattuale sono oggettivamente più deboli rispetto ai produttori locali, rischiano di essere costrette a piegare la testa.

«Per lungo tempo l'industria manifatturiera cinese ha potuto contare su un bacino pressoché illimitato di manodopera a basso costo - osserva l'economista indipendente, Andy Xie -, ma oggi il quadro è cambiato radicalmente. I contadini che, fino a pochi anni fa, migravano felici per andare a lavorare nelle fabbriche del Guangdong, non sono più disposti a trasferirsi a migliaia di chilometri da casa per un salario che garantisce loro giusto la sussistenza. Oggi chi lascia il villaggio per trasformarsi da contadino a operaio vuole di più».

Il fenomeno, per la verità, non è poi così nuovo com'è stato dipinto in questi giorni dai media cinesi e internazionali. Che nel Delta del Fiume delle Perle la manodopera iniziasse a scarseggiare e i salari di conseguenza a lievitare di pari passo era noto almeno da un paio d'anni.

Poi, però, i licenziamenti in massa imposti dalla grande crisi economica del 2008 avevano fatto scivolare il problema in secondo piano. Ora la formidabile ripresa messa segno l'anno scorso dalla Cina, e il rimbalzo degli ordini dal resto del mondo, hanno riportato di estrema attualità la "questione operaia".

«Qui nel Guangdong, purtroppo, gli aumenti salariali sono diventati una costante ormai da tempo - avverte Christian Ritschl, direttore generale di Optical Technology Manufacturing, un'azienda italiana di Dongguan che produce componenti per l'industria degli occhiali -. Basti pensare che nel 2009 la retribuzione mensile minima era salita da 650 a 720 yuan, e il primo maggio scorso è stata nuovamente ritoccata a 950 yuan. La tendenza, quindi, mi pare chiara e inarrestabile».

Se i salari continueranno davvero a lievitare di questo passo, che ne sarà della più grande piattaforma industriale del pianeta? «Si ripeterà quanto già accaduto in passato a Taiwan o in Corea: le produzioni a basso valore aggiunto si sposteranno in paesi caratterizzati da un costo del lavoro più basso», risponde Xie.

Del resto, sono le stesse autorità del Guangdong a spingere in questa direzione. «Da qualche anno, ormai, il governo locale ha varato la cosiddetta politica del "pulire la gabbia e cambiare gli uccelli" finalizzata all'espulsione graduale delle manifatture tradizionali e all'attrazione degli investimenti industriali a maggior valore aggiunto - aggiunge Vettoretti -. Questa politica non verrà modificata, e il fatto che la municipalità di Shenzhen abbia investito direttamente in un nuovo parco industriale nel nord del Vietnam dimostra la scelta strategica dei cinesi di delocalizzare altrove le produzioni che ormai non sono più competitive nel Delta del Fiume delle Perle».

«È fisiologico che, dopo oltre vent'anni di crescita continua, i costi, tutti i costi non solo quello della manodopera, aumentino progressivamente sino a diventare non competitivi - sostiene Dick Chen, imprenditore e presidente dell'Associazione degli industriali taiwanesi di Canton -. Così per migliaia di aziende come la mia, che a suo tempo s'insediarono nel Guangdong per produrre manufatti da esportare nel mondo a basso costo, non resta che emigrare in altre zone della Cina, verso Nord o verso Ovest, dove i costi dei fattori produttivi sono ancora a buon mercato».

Le opzioni non mancano. C'è il selvaggio West che attende a braccia aperte gli investimenti dei grandi gruppi manifatturieri domestici o internazionali. Oppure, ci sono le province finora ignorate o lambite solamente dallo sviluppo industriale: il Guangxi, il Fujian, lo Hunan, il Jiangxi, l'Anhui. Lì i governi locali sono ancora disposti a fare ponti d'oro a chi porta idee, capitali e occupazione, esattamente come accadeva nel Guangdong in fase di decollo vent'anni fa.

Ma una storia di successo come quella del grande Delta - una storia che ha segnato lo sviluppo industriale più rapido, intenso e travolgente nell'esistenza dell'umanità - sarà impossibile da riscrivere nella Cina di domani.

ganawar@gmail.com

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