Storia dell'articolo
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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2010 alle ore 10:58.
Amedeo Guillet, a 101 anni di età, è uscito dalla leggenda per entrare nella storia: la sua morte, avvenuta il 16 giugno, ne consegna l'eccezionale figura ai posteri. E grazie alle cure e alle ricerche negli archivi della dottoressa Rosangela Baronelo si potrà comprendere meglio la sua esistenza avventurosa.
Non era facile ma necessario farlo, per ridare a un personaggio straordinario il posto che gli appartiene – e che altri studieranno – nella storia d'Italia, del mondo arabo ed ebraico, nella diplomazia e nel pensiero militare.
Parlare di lui come di un Lawrence d'Arabia italiano è uno dei miti da sfatare. Anzitutto perché, se cosi fosse, si tratterebbe di un Lawrence d'Africa. Poi perché è uno sminuire le sue gesta.
Lawrence aveva dietro di sé un impero ricco e vittorioso; Guillet un impero vinto e senza risorse. Lawrence pagava in sterline d'oro e con la razzia la cooperazione dei beduini contro l'esercito turco; Guillet, su cui pesava una taglia di mille sterline, combatté per 14 mesi le forze britanniche in Eritrea con un pugno di indigeni a cui aveva proibito persino di appropriarsi di una gallina e che lo seguivano, nella miseria, per pura lealtà al leader e per fratellanza umana. Valori che testimoniano della sue qualità d'animo ma anche di applicazione all'arte della guerra appresi da Clausewitz e Tucidide.
Fu certo un grande soldato che con la carica di "Cherù", in Etiopia, alla testa del Gruppo di Bande a cavallo «Amhara» permise la ritirata delle truppe italiane a Cheren, alla cui difesa partecipò aggiungendo alle altre la più dolorosa delle sue ferite. Dietro l'immagine stereotipata di «Comandante Diavolo» che gli avevano affibbiato i suoi uomini, e i suoi avversari sul campo di battaglia, c'era quella schiva del l'artista. Artista nell'arte dell'equitazione che lo aveva candidato alle Olimpiadi e nella quale aveva sviluppato un linguaggio equino con cui otteneva tutto dai cavalli.
Dotato di una memoria ferrea, recitava a memoria interi canti dell'Orlando Furioso. Era stato un ottimo pianista sino a tanto che una ferita alla mano limitò questo suo dono. Si scherniva delle sua capacità di pittore ma era un buon acquarellista. Non era né un asceta né un santo combattente. Possedeva innata l'umiltà dell'aristocratico che antepone il dovere al diritto. Questa umiltà che gli aveva permesso di vivere come venditore d'acqua fra i poveri di Massaua, lo aveva avvicinato all'Islam di cui ammirava la totale sottomissione al divino. Questa fede che Guillet aveva conosciuta in Libia studiando l'arabo coi bambini di una scuola indigena dava una dimensione mistica al suo senso di onore cavalleresco. L'onore che gli aveva impedito di accettare la resa e l'ingiustizia delle leggi razziali.