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Commenti e Inchieste

Tra le api operaie delle news

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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2010 alle ore 08:03.

P er un giornalista visitare la sede dell'Economist è come per un amante della Nutella avere accesso alla fabbrica della crema di nocciole e cioccolato più famosa al mondo. Già solo entrare nell'edificio di Saint James Street che ospita la redazione del settimanale e gli altri uffici del gruppo è una piccola grande emozione. Perché l'Economist è stato ed è un mito per generazioni di giornalisti, economici e non. Lo è in un mondo in cui ai giornalisti – e soprattutto ai lettori – di miti ne restano pochi. Il New York Times dava lavoro a un tale Jayson Blair che – si è scoperto a premio Pulitzer assegnato – copiava o inventava gli articoli; Business Week era talmente in crisi che è stato venduto a Bloomberg per un dollaro; il Washington Post, senza il quale non avremmo avuto lo scandalo Watergate, taglia le sedi di corrispondenza; Larry King viene licenziato perché non fa abbastanza ascolti.


L'Economist no, l'Economist è «alive and kicking», vivo e combattivo, potremmo dire. La sua reputazione non è stata scalfita da clamorose sviste o errori (anche perché quando sbaglia lo ammette) e la diffusione è addirittura in crescita . L'Economist potrebbe pavoneggiarsi, guardando a un mondo della carta stampata in crisi di diffusione ma anche di idee e credibilità. Però non lo fa: sull'edificio non troneggia alcuna scritta gigantica, come quella del New York Times. Il logo bianco e rosso è disseminato qua e là, come briciole sul cammino di Hansel e Graetel e conduce dall'atrio al 10° piano, dove c'è l'ufficio del direttore John Micklethwait.

Ma un conto è visitare l'Economist Building, che si trova a due passi dalla Royal Academy e da un'altra istituzione londinese, la sede di Fortnum&Mason e che ospita anche la mitica Economist Intelligence Unit, dove lavorano i ricercatori del gruppo e che sforna pubblicazioni come Il mondo in cifre (tradotto in italiano da Internazionale). Altra cosa è partecipare alla riunione editoriale del lunedì, aperta ai capi delle varie sezioni del giornale. È lì che l'edizione di carta prende forma e che si decidono gli argomenti che troveranno subito uno sbocco sul web o sui blog dei giornalisti dell'Economist. L'integrazione tra carta e internet è una delle priorità del direttore: «Definirei il mio stato d'animo nei confronti della rete una lucida paranoia: so che il nostro mestiere sta cambiando per "colpa" di internet. E so che molti colleghi, in giro per il mondo, perderanno il lavoro. Ma allo stesso tempo vedo le grandi opportunità di offrire ai lettori-navigatori, grazie alla rete, un Economist ancora più ricco, aggiornato, preciso, divertente. La paura è legata al fatto di riuscire a fare davvero un prodotto così, perché la verità è che nessuno ha una formula giusta, stiamo tutti sperimentando».

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Tags Correlati: Economist Intelligence Unit | Fortnum | Internazionale Socialista | Italia | James Street | John Micklethwait | Larry King | Saint | Società dell'informazione

 

La riunione del lunedì si tiene sempre nell'ufficio del direttore, che è luminoso e con una bellissima vista su Saint James Park. Ma che è anche molto piccolo: i posti a sedere sono solo una decina (chi arriva per primo può occupare le due poltrone davanti alla scrivania del grande capo, altrimenti ci sono gli stipiti delle finestre), gli altri si accomodano per terra o restano a ridosso del muro, a cui sono appoggiate alcune librerie. Piene di volumi, ma non strabordanti. Il direttore dà la parola a turno ai capisezione, che illustrano il loro programma e – se i temi paiono abbastanza forti – si candidano per diventare anche uno dei "leader", gli articoli della prima sezione dell'Economist. Quelli che finiscono nelle rassegne stampa dei decision maker di tutto il mondo, perché sembrano sempre fare il punto, fotografare una certa situazione o problema – economico, politico o sociale che sia – a un certo micropunto della storia del mondo. Per la riunione del 21 giugno il numero che stava prendendo forma sarebbe stato dominato dal tema economico del giorno e la copertina si sarebbe intitolata "C'è vita dopo il debito?", a richiamare una sezione di 14 pagine. Ma ci sarebbe stato spazio anche per un articolo sulla lotta all'evasione fiscale in Italia. «Seguiamo con attenzione tutto quello che succede nel vostro paese e sono sicuro che molti nostri lettori italiani hanno votato per Berlusconi e probabilmente ancora ci rimproverano la copertina in cui definimmo il premier "unfit to lead Italy". Ma noi non vogliamo compiacere il nostro lettore, mai. Vogliamo farlo ragionare, raccontargli i fatti con quella freddezza che a volte solo un occhio esterno può dare. Continuiamo a pubblicare articoli in cui sottolineiamo quali delle promesse fatte in nome del liberismo Berlusconi e i suoi governi hanno tradito». Quello che colpisce del direttore è il suo modo di fare domande, come se si calasse nei panni del lettore e dei suoi potenziali interessi e dubbi.

Alla fine della riunione tutti i giornalisti tornano verso i loro uffici, come tante api operaie, continuando a parlarsi, la loro forza sta nell'essere uno sciame compatto. Con il direttore resta solo la responsabile dell'ufficio grafico, per ipotizzare cosa mettere in copertina. C'è una copertina, di recente, o una storia, con la quale sente di aver fatto una differenza? John Micklethwait si avvicina alla parete alla quale sono attaccate le copertine degli ultimi mesi, incollate una accanto all'altra in modo preciso quanto basta (niente, all'Economsit, sembra voler dare l'impressione di vivere in un mondo di incrollabili certezze, anzi). «La copertina dedicata al Gendercide – dice –. Abbiamo sollevato il problema della scomparsa di decine di migliaia di neonati di sesso femminile in Cina come nessuno aveva mai fatto. Storie di questo genere non sempre possono trovare spazio: a volte è la cronaca a dettarci l'agenda, a non lasciarci tempo e spazio per argomenti che sfuggono ai normali radar delle notizie. Ma quando succede è una grande soddisfazione».

(Fin dal primo numero, uscito nel settembre del 1843, gli articoli dell'Economist sono senza firma. I giornalisti sono tenuti a leggere tutto ciò che viene scritto dai colleghi
e a verificarne correttezza grammaticale, lessicale e fattuale. In questo modo tutti sono responsabili della fattura complessiva del settimanale. In omaggio allo spirito dell'Economist, questo pezzo resta anonimo.
Ah, il piacere dell'understatement)

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