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Tasse alte come in Svezia, servizi da terzo mondo. Quel fiasco bipartisan sul fisco

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Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre 2010 alle ore 08:00.

Una notizia tira l'altra, e tutte portano alla stessa domanda: ma perché non accade niente, non diciamo un moto popolare di piazza, ma almeno una rottura tipo la marcia dei quarantamila impiegati Fiat del 1980?

Parliamo di fisco e c'è solo l'imbarazzo della scelta sotto una pioggia battente, e contraddittoria, di numeri storti. I cittadini pagano tasse modello Scandinavia ma ottengono in cambio servizi da terzo mondo. L'Irap, un'imposta ideologica, finisce per tartassare le imprese ad alta intensità di lavoro con un carico fiscale complessivo che arriva a superare l'80% (dati Mediobanca 2010).

Lo stipendio degli italiani è tra i più bassi in Europa e insieme tra i più tassati. Ma la metà dei contribuenti dichiara non oltre 15mila euro annui e circa due terzi non più di 20mila euro, mentre solo lo 0,95% dichiara redditi maggiori ai 100mila euro. L'imponibile complessivo lasciato fuori dai cassetti delle dichiarazioni fiscali ammonta a circa 270 miliardi l'anno.
Più si scende da Nord a Sud, più sale l'intensità dell'evasione fiscale, piaga da oltre 120 miliardi. I rapporti tra il fisco e i contribuenti sono storicamente tempestosi, e tutt'e due cercano il jolly vincente. Compresa l'amministrazione, spesso sostenuta da una giurisprudenza amica, che tende a ribaltare l'onere della prova con l'accusato che deve dimostrare la sua innocenza fiscale.

A fronte di tutto questo s'afferma a livello politico un operoso attendismo, che taglia trasversalmente tutti gli schieramenti, compreso quello di centro-destra, che pure sulla questione fiscale ha scommesso molto. Certo, l'Europa ci guarda e mancano le risorse per la svolta, a meno di tagli draconiani sulla spesa o introiti straordinari frutto di un piano di dismissioni.
Si aspetta la rivoluzione federalista, la cui marcia non sarà però né breve né scontata. Il governo mette in cantiere la riforma nello spirito del 1994 (spostare la tassazione dalle persone alle cose) che dovrà superare quella dei primi anni Settanta e apre un tavolo di studio e di confronto con le parti sociali e professionali. Tutto corretto, ma anche molto lento.

Il partito delle tasse è più forte di quanto si pensi e poggia su compromessi politico-sindacali e scambi sociali, più o meno occulti, difficili da smantellare. Però colpisce che dalla carne viva della società, a parte i malumori di un giorno o qualche lamento corporativo, salga poco o nulla in direzione della svolta.

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Tags Correlati: Antonio Martino | Corte Costituzionale | Europa | Fausto Bertinotti | FI | Fiat | Fisco | Giorgio Fidenato | Giulio Tremonti | Luigi Einaudi | Marco Pannella | Mediobanca | Partito Radicale | Scandinavia | Vincenzo Visco

 

Del resto, minoritaria è storicamente la cultura liberale, che pure ci ha dato un Luigi Einaudi, un Bruno Leoni (l'istituto che porta il suo nome è in coraggiosa battaglia) o un Sergio Ricossa, per il quale la stessa civiltà borghese sarebbe crollata sotto il peso delle tasse.

Non sfondano i brillanti richiami accademici. Non attecchiscono, nel paese dove il professionismo politico è antipolitica e viceversa, i Tea Party all'americana fondati su un attivismo decentrato senza una leadership organizzata.
Resta solitaria l'iniziativa di un imprenditore come Giorgio Fidenato contro l'obbligo di trattenere le imposte per conto dei dipendenti per versarle poi al fisco.
Che sia il famoso sostituto d'imposta - al quale è sottoposto il lavoro dipendente - lo schermo che impedisce agli italiani di vederci più chiaro? Ecco una traccia possibile, confermata anche da una voce non sospetta (di liberismo fiscale alla Antonio Martino, per intendersi) quale quella dell'ex ministro prodiano Vincenzo Visco: il «miracolo della ritenuta alla fonte rende inconsapevoli di cosa sta accadendo» (Il Sole 24 Ore del 25 settembre 2009).
Mentre il leader dei radicali Marco Pannella, riformista con bussola liberale, richiama in questi giorni all'immagine del dipendente "gallina d'oro" di uno stato sprecone.

Grande storia, quella del sostituto. Nel 1994 la sua abolizione era prevista dal programma di Forza Italia e nel 1999 divenne oggetto dei referendum liberali e liberisti proposti dai Radicali. Ma il progetto, per la cui difesa presentò una memoria l'allora avvocato e professore Giulio Tremonti, fu dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale.
Anni dopo, il problema lo pose anche l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti. Ma cadde nel vuoto. Da sinistra, dopo averlo fatto da destra.

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