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Il merito all'università è un aiuto ai giovani. Ecco perché è arrivato il momento di cambiare. Sondaggio

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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2010 alle ore 08:17.
L'ultima modifica è del 01 dicembre 2010 alle ore 07:52.

Alison Richard, compiuti i 65 anni, ha riunito il corpo docente di Cambridge, la sesta università del mondo, e ha ringraziato tutti per l'ottimo lavoro svolto e i brillanti traguardi raggiunti. La sua missione di rettore è durata cinque anni, come per gran parte dei suoi predecessori. Più o meno negli stessi giorni Augusto Preti, a 67 anni, ha riunito il corpo docente dell'Università di Brescia (settima in Italia tra le medie) e ha ringraziato tutti: dopo 9 mandati e 27 anni di carriera da rettore. Era il decano dei rettori che, in media, in Italia stanno in sella per oltre 10 anni (5 negli Stati Uniti e altrettanto in Gran Bretagna, solo per citare gli stati con le migliori università del mondo).

Due modelli, due paesi, due stili, due culture. In Gran Bretagna è un board a scegliere il rettore, in Italia si viene eletti dai "colleghi". Rating di mercato contro rating da campagna elettorale: a volte coincidono, spesso – quasi sempre – no, perché nell'uno vale soprattutto il merito, nell'altro vale soprattutto il voto di scambio.

La riforma Gelmini, che ieri ha avuto il primo via libera dalla Camera, non trasformerà per legge l'Italia nella Gran Bretagna, ma tenta di arginare il fenomeno delle nomine a vita e pone un tetto di 6 anni al mandato di rettore. Lo stesso emendamento anti-parentopoli (vota il sondaggio) ha ulteriormente limitato il rischio di nepotismo accademico.

Quello della lotta alle "baronie", del resto, è uno dei cardini della riforma che ha portato nei giorni scorsi – forse per eterogenesi dei fini – una parte degli studenti sui tetti, fino ad arrivare, nella giornata di ieri, a scontri nelle piazze, a bloccare stazioni e persino un'autostrada. Una protesta che sa più di revival per certa politica che di contrasto nel merito a un provvedimento, probabilmente, non conosciuto. Chi oggi alza in piazza gli scudi della cultura – da Cervantes a Saviano, da Proust a Ovidio – da contrapporre al plexiglas della polizia anti-sommossa forse non sa che protesta anche un po' contro se stesso. Forse non sa che la legge introduce un ruolo qualificato dei discenti negli organi di governo dell'università e prevede la valutazione dei professori da parte degli stessi studenti, destinata a diventare uno dei criteri base per erogare fondi agli atenei.

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La riforma riequilibra le cattedre: oggi ci sono 300 sedi e almeno 2mila dottorati; resteranno poco più di 160 settori scientifico-disciplinari (contro i 370 di adesso) e ci potranno essere al massimo 12 facoltà per ateneo. Che senso aveva, solo per citare un esempio, mantenere a Genova uno squilibrio strutturale fatto di 16 professori di latino contro 3 di ingegneria gestionale? C'è un errore prospettico che la legge Gelmini vuole modificare: quello che l'università sia fatta solo dall'offerta. Che, forse è bene ricordarlo, oggi è tripla rispetto all'effettivo potenziale della domanda degli studenti.

Ma non è nemmeno solo la domanda degli studenti a stabilire il giusto mix di saperi di un paese (altrimenti si finisce, come oggi, con l'overdose di laureati in scienza delle comunicazioni e nessun laureato in ingegneria nucleare); tuttavia non ha senso pensare a un sistema creato per successioni di interventi ope legis che – periodicamente – trasformano alcune decine di migliaia di persone orbitanti attorno al mondo accademico in altrettanti docenti.

Forse non basta aver contribuito a svolgere un corso di un mese per avere il titolo di "precario" dell'università. Oggi invece è così. Forse non basta avere seguito un corso post-doc di 2-3 anni per opzionare un posto nella carriera universitaria. Oggi è così. Forse non basta essere un dottorando di Phd per qualificarsi da subito "precario della ricerca". Oggi invece è così. In nessuno dei paesi dove l'università è efficiente questo sarebbe riconosciuto.

Perché dovrebbe essere così scandalosa una riforma del reclutamento che prevede contratti a tempo di 6 anni (3+3) al termine dei quali se si viene valutati validi si viene assunti a tempo indeterminato? Perché non va se lo stipendio di chi entra in università (a 30 anni e non a 36 come oggi) passa da 1.300 a 2.100 euro? A lume di buon senso, non può che sembrare positiva la norma che prevede per i docenti l'obbligo di certificazione della presenza: quanti sono stati fino ad oggi i professori-consulenti che nella vita sono più consulenti che professori?

Quella che passa come la privatizzazione degli atenei altro non è se non una robusta cura di efficienza gestionale in un ambiente che della sana e prudente gestione delle risorse non ha mai fatto una priorità. Quello che farà fede – come sarà per il federalismo fiscale in tema di sanità – è il costo standard per studente: oggi, come per gli ospedali, conta solo il costo storico per cui ci sono differenze anche di quattro volte tra un ateneo e un altro e non è certo un segno di maggior efficienza o maggior prestigio. L'efficacia didattica e la qualità della ricerca, invece, d'ora in poi saranno verificate dall'Agenzia nazionale di valutazione il cui responso sarà dirimente per ottenere i finanziamenti da parte del ministero. Sempre che i finanziamenti non vengano ulteriormente ridotti da politiche che sull'università hanno finora fatto cassa e non sviluppo.

Il merito conta molto all'estero in quei paesi con tradizioni accademiche che, nel corso del tempo, sono diventate ben più blasonate della nostra. Non si vede perché non dovrebbe contare anche in Italia. Siamo pur sempre il paese che le università le ha inventate.

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