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WikiLeaks e Julian Assange, la legge è uguale per per tutti

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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2010 alle ore 09:30.
L'ultima modifica è del 09 dicembre 2010 alle ore 09:42.

Il mondo si divide su Wikileaks e sul suo fondatore, Julian Assange, arrestato con l'accusa di duplice stupro. Un Robin Hood informatico, o un cyberterrorista, che prima paralizza la diplomazia, poi minaccia di bloccare ovunque il business online? Fan e critici litigano, senza troppo costrutto, e sembrano non vedere la semplice verità.

Le ideologie del XX secolo promettevano la liberazione da sofferenze e disuguaglianze, ma presto hanno ammesso che sì qualche diritto andava violato, qualche regola democratica autoritariamente abrogata perché il fine della storia rivoluzionaria giustifica i mezzi di una politica repressiva. Vogliamo ricaderci? Ieri schiavitù in nome della libertà, oggi segreto in nome della trasparenza? Non vorremmo che il XXI secolo cadesse in una simile feroce illusione. La rete stessa, già miraggio di trasparenza, rischia di trasformarsi in un'ideologia che promettendo il miraggio di assoluta libertà di espressione, finisce per dimenticare i principi di democrazia e tolleranza.
Che cosa c'entrano infatti gli innocenti cittadini titolari di una carta di credito, o i dipendenti delle aziende colpite dalla furia degli hacker nascosti dietro al passamontagna dell'anonimato on line, scesi in campo ieri in difesa di Assange? Nulla, ma pagano per tutti secondo il credo del nichilismo telematico.

La trasparenza è un valore ma deve esserlo sempre, e per tutti. Se Wikileaks diffonde i dispacci delle ambasciate per mostrare che cosa pensano davvero le cancellerie dei potenti, la stessa trasparenza deve essere pretesa da Wikileaks: chi la finanzia, dove ha sede, perché i collaboratori di Assange vengono cacciati alla prima critica (per esempio quando si ribellarono contro la pubblicazioni dei nomi di chi collaborava con gli Usa a Kabul, poveretti verosimilmente già spacciati dai killer)? Perché registi noti come Ken Loach son pronti a pagare cauzioni per Assange e corrono a difenderlo? Quando celebrità come il pugile Tyson, il nipote dei Kennedy, William Kennedy Smith, o il cestista Briant sono stati accusati di stupro la simpatia dei media è andata alle presunte vittime, prima di ogni giudizio. Per Wikileaks è l'opposto, la mobilitazione per Assange lo pre-assolve dalle accuse, le femministe, celebri e no, tacciono, ovunque prevale la teoria del complotto, "l'hanno incastrato!"?

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Assange non deve avere un trattamento peggiore perché molti potenti lo odiano, ma neppure uno migliore perché è il guru tenebroso della rete. E perché in alcuni casi la semplice pubblicazione di un documento è considerata tutto fuorché giornalismo – "non siamo una buca delle lettere!", si proclama corrucciati - mentre per Wikileaks John Pilger, inviato di guerra del Daily Mirror al tempo del Vietnam, dice addirittura: "Siamo di fronte al più grande lavoro giornalistico di sempre"? Ad Assange vanno garantiti un giusto processo e la massima protezione, non opacità, squadrismo mediatico e tifo da stadio: "Fagliela vedere Julian!". Wikileaks merita attenzione giornalistica, non l'aura sacra della bocca della verità. La rete si è conquistata il rispetto che si deve a un grande strumento di innovazione e liberazione, non l'immunità a prescindere per meriti pseudo rivoluzionari, una tragicommedia che tanti danni ha fatto negli ultimi 50 anni, e tanti ancora ne fa in Italia. Il rispetto delle persone, del lavoro, della comunità deve essere difeso, da chiunque, Robin Hood o Sceriffo di Nottingham che sia.

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