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Il mondo corre veloce mentre l'Europa pedala sempre più piano e azzarda un pericoloso surplace

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2010 alle ore 09:32.

«L'Europa è come la bicicletta: ad andare piano si fa più fatica e si è instabili, bisogna pedalare forte». Sembrano inascoltate, dagli attuali leader europei, le parole del decano dell'europeismo ed ex presidente della Commissione Ue, Jacques Delors.

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A dispetto delle raffiche di vento gelido che dai mercati si sono abbattute nelle ultime settimane sui debiti sovrani di Grecia e Irlanda ma anche di Portogallo e Spagna e, per fortuna in modo solo molto marginale, di Italia e Belgio. Al summit di Bruxelles che si è chiuso venerdì, i 27 non sono riusciti ad andare oltre la scontata creazione di un meccanismo permanente salva-stati dal 2014, accompagnato dal raddoppio del capitale della Bce a 10,76 miliardi. Per ora niente eurobond, niente estensione dell'attuale fondo di salvataggio. Lo stanco colpo di pedale lascia perciò l'Europa, per i prossimi tre anni, come un gregario con le gomme sgonfie sull'infido pavé belga.

Va riconosciuto che i capi di stato e di governo in questa occasione hanno fatto dei seri tentativi per mettere a punto un pacchetto di misure coerenti per ridare stabilità all'euro. Gli effetti dei morsi già dati dai mercati ad Atene e Dublino - per quanto in buona parte determinati dalla dissennata condotta passata dei rispettivi governi - hanno fatto capire che il disfacimento dell'euro non è nell'interesse di nessuno.

Nel breve periodo si continua però a veleggiare nel regno delle ipotesi. Si solidifica la sensazione che i leader abbiano bisogno di trovarsi con le spalle al muro, per varare provvedimenti efficaci e comunque siano incapaci di operare con il necessario tempismo preventivo sui movimenti dei mercati. A incarnare questo atteggiamento c'è l'ostinata opposizione di Angela Merkel agli eurobond e ad allargare il raggio d'azione del fondo temporaneo (Esfs), sebbene presieduto dal fedele connazionale Klaus Regling. Un atteggiamento miope sul quale la cancelliera ha saputo trascinare anche Nicolas Sarkozy.

Del resto, in questi giorni, la Merkel ha ribadito di fronte alla propria opinione pubblica, facendosi schermo con le sentenze della Corte costituzionale di Karlsruhe, come la Germania sia disposta a intervenire per il «bene comune» dell'euro, non per il salvataggio di questo o quel paese. Peccato che, per la buona tenuta della moneta unica, sarebbe importante far capire ai mercati che si è pronti fin da ora (non solo dal 2014) a creare una rete preventiva di salvataggio per i paesi sull'orlo del baratro o a mettere in cantiere progetti di ampio respiro come le emissioni obbligazionari comuni. Altrimenti il rischio è quello di agire solo di rimessa, di essere sempre un passo indietro rispetto alle aspettative comuni, di ricreare lo stesso disastroso effetto domino che si generò ai tempi della crisi del Sistema monetario europeo.

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Su questo panorama s'innesta poi la spinta del premier inglese David Cameron, spalleggiato ancora una volta da Merkel e Sarkozy, a chiudere i cordoni del bilancio comunitario per il prossimo periodo 2012-2020, cominciando a piantare paletti sei mesi prima che il dibattito sia nemmeno iniziato. Un altro segnale che i big d'Europa di questi tempi non hanno nessuna voglia di essere leader veramente "comunitari". Nessun interesse a dare spinta a progetti comuni per favorire il rilancio del mercato unico, la ripresa del continente e per dare un ampio respiro all'Unione Europea sullo scenario globale.

Per ora, pedalando lemme lemme, le sciagure di una recessione prolungata e di uno sfaldamento dell'euro sono state evitate. Ma il mondo corre veloce. Non sono più i tempi di quei grandi pistard degli anni 60, dei Maspes e dei Gaiardoni, capaci di stare con la loro bici in surplace per ore. Chi si ferma, rischia una fragorosa caduta.

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