Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2010 alle ore 08:11.
È la Germania che detta legge. Sarà lei a decidere se l'eurozona potrà prosperare, forse addirittura se potrà sopravvivere. È la potenza centrale in Europa, dal punto di vista geografico, politico ed economico. La Francia questo lo sa. L'interrogativo è che uso farà la Germania di questo potere. La risposta non dipenderà solo dalla sua capacità di vedere i propri interessi, ma dalla sua capacità di comprendere gli eventi. E questa seconda mi preoccupa molto di più della prima.
Il mio collega Wolfgang Münchau ha definito gli obiettivi del governo tedesco una «responsabilità limitata»: fare quanto basta per tenere l'euro a galla riducendo al minimo gli oneri per i contribuenti teutonici. È un atteggiamento criticato, perfino in Germania. L'articolo di Frank-Walter Steinmeier e Peer Steinbrück (rispettivamente ministro degli Esteri e ministro dell'Economia tra il 2005 e il 2009) sul Financial Times del 15 dicembre lo dimostra. I due ex ministri socialdemocratici propongono una combinazione di decurtazioni del valore per i creditori privati, garanzie sul debito per i paesi stabili e introduzione limitata di eurobond, il tutto accompagnato da politiche di spesa pubblica più coordinate. Ma Angela Merkel, la cancelliera di ferro, rifiuta le garanzie o gli eurobond. La sua proposta è più disciplina di bilancio accompagnata da limitati stanziamenti di fondi per far fronte alle emergenze, a tassi di interesse alti, con i paesi in deficit costretti a effettuare aggiustamenti rapidi e brutali.
La posizione preminente di Berlino non nasce solo dalle dimensioni economiche della Germania, quanto dal fatto di essere la maggiore nazione creditrice e lo stato più affidabile per i creditori. Quando i paesi in passivo nel saldo con l'estero rimangono a corto di prestatori stranieri privati, devono affidarsi ai prestiti di altri stati. È quello che sta succedendo nell'eurozona. Il potere dei creditori è semplice: in assenza del loro sostegno, i paesi in deficit finiscono in default. Il tracollo del credito che ne consegue finisce a sua volta per imporre rapidi tagli alla spesa e una recessione spaventosa. Questa recessione, a sua volta, rende ancora più ingestibili le finanze pubbliche.
La spirale al ribasso impone dei costi anche alle nazioni in surplus, perché le costringe a svalutare le loro attività e a perdere mercati di esportazione. Ma il loro attivo nel saldo con l'estero le mette nelle condizioni di compensare espandendo la domanda interna. Quando c'è una crisi comandano i mercantilisti. Ed è così in questo momento per l'eurozona. Prima di decidere che cosa fare, la Germania deve stabilire quali sono i suoi interessi. E non sto parlando di interessi meramente finanziari. Stringere i legami con gli stati vicini nel quadro dell'Unione europea è stato uno dei pilastri della politica tedesca nel dopoguerra, e per ragioni più che valide: isolata, la Germania si è dimostrata una calamità, per i vicini e per se stessa. Inoltre, un Deutsche Mark redivivo schizzerebbe alle stelle, con un impatto devastante sulla competitività dell'export tedesco. Per entrambe queste ragioni, la sopravvivenza dell'euro è nell'interesse della Germania, a patto che l'euro rimanga una valuta stabile in termini di potere d'acquisto interno, come sicuramente sarà.
Il problema, quindi, non è se preservare o meno l'euro, ma come. Il requisito fondamentale è capire che cosa non ha funzionato. Non è stato (tranne che in Grecia) un problema di indisciplina di bilancio, come vuole la vulgata corrente. È il settore privato il problema. Un nuovo, eccellente rapporto dell'Ocse sottolinea questo aspetto con grande efficacia. I paesi con una domanda interna debole e un export competitivo hanno generato un'eccedenza di risparmi (principalmente tra le famiglie, nel caso della Germania) che si è riversata nelle loro banche. Con l'integrazione della zona euro, l'eccesso di depositi in rapporto ai prestiti nei paesi in surplus ha preso la via di quelli in deficit, dove il settore bancario era a corto di depositi. Era previsto, si potrebbe sostenere. Sfortunatamente i paesi in deficit avevano tassi d'interesse reali molto bassi, a causa del basso livello dei tassi nominali dell'eurozona e del buon andamento delle loro economie. Le bolle speculative che ne sono scaturite sono state alimentate dal credito estero: nel 2007, i debiti dell'Irlanda nei confronti di banche straniere equivalevano al 204% del prodotto interno lordo.
L'Irlanda e la Spagna hanno sempre mantenuto i conti in ordine: è stato il debito privato ad andare fuori controllo. Certo, quando è esplosa la crisi la situazione dei conti pubblici è peggiorata drammaticamente. Ma solo in quest'ultima fase, quando i creditori privati hanno preso il volo, la stretta di bilancio si è fatta sentire. Tendenzialmente, dunque, l'austerity è disastrosamente prociclica.
Quali sono le implicazioni per il futuro della moneta unica? L'eurozona deve affrontare due sfide: gestire la confusione attuale e realizzare riforme di lungo termine. Riguardo alla prima, le esigenze sono: finanziare la contrazione della spesa pubblica per chi è ancora in grado di barcamenarsi, avviare una ristrutturazione del debito per chi non è in grado e rifiutare di spingere alla bancarotta uno stato per salvare i creditori delle sue banche in dissesto.
Contemporaneamente i paesi in deficit, se vogliono ricavare benefici dall'euro, dovranno procedere a una dolorosa riduzione dei salari nominali. E questo significa riforme profonde del mercato del lavoro. E un'impennata della domanda nel cuore della zona euro darebbe una mano.
Quanto alle riforme di lungo periodo, c'è un gran dibattito sull'utilità o meno di un'unione fiscale. Dipende da che cosa si intende. Tra le condizioni necessarie per un'unione efficiente ci sono il finanziamento degli aggiustamenti di bilancio, per evitare che vadano in default stati che possono evitarlo, e la riforma del settore finanziario. A quest'ultimo proposito, è evidente che se si vuole un sistema finanziario ragionevolmente a prova di crisi, bisogna diversificarlo a seconda delle varie nazioni dell'euro. Una banca che presta solo in un paese, specialmente se si tratta di un paese piccolo come l'Irlanda, è molto vulnerabile. Imporre perdite economiche ad azionisti e creditori delle banche in dissesto dovrebbe essere ovvio (naturalmente a patto che sia possibile). Ma purtroppo sembra che sia una cosa inconcepibile. Le conclusioni possibili sono due: o l'eurozona deve avere una capacità di spesa adeguata a soccorrere banche grandi e diversificate, non importa in quale paese si trovino, oppure questi istituti di credito devono essere collocati in paesi grandi e con governi solventi. Oltre a un sistema finanziario più integrato, l'eurozona avrà bisogno anche di controlli macroprudenziali efficaci sul credito. Requisito fondamentale per tutto questo è riconoscere che il tallone d'Achille del sistema è stato la finanza privata, non quella pubblica. Il governo tedesco sicuramente intende fare quanto necessario per tenere in piedi la zona euro. Ma l'eurozona che ha in mente la Germania sarebbe terribilmente scomoda per molti stati membri. E la ragione di questo è che i problemi dell'euro non nascono, nella gran maggioranza dei casi, da indisciplina fiscale, ma da divergenze macroeconomiche, irresponsabilità finanziaria, bolle speculative ed enormi divari di competitività. Se si vuole che l'euro funzioni meglio, questi tre problemi vanno affrontati. La sfida è progettare un sistema che lo faccia. La Germania deve interpretare un ruolo guida. Se non lo farà, potrebbe risvegliarsi una mattina e scoprire che l'euro non c'è più, a causa di un momento di distrazione. (Traduzione di Fabio Galimberti)