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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2011 alle ore 09:41.
All'Estonia bisognerebbe fare le congratulazioni, ma forse anche le condoglianze. Il paese baltico è entrato ufficialmente nell'Eurozona il 1° gennaio, un traguardo notevole che simboleggia la trasformazione da ex provincia sovietica a stato europeo a tutti gli effetti. Ma il costo di questa avventura finora ha incluso una recessione gravissima. Il Pil ha ricominciato a crescere, ma solo dopo un crollo del 18% dal 2007 e, secondo le proiezioni del Fondo monetario internazionale, non tornerà ai livelli pre-crisi fino al 2015. Anche la disoccupazione è aumentata a quasi il 18% ed è prevista al di sopra del 10% fino al 2014. Quindi, congratulazioni all'Estonia, ma anche condoglianze. Non è stato di certo l'ingresso scintillante nell'euro che le era stato promesso anni fa e che si aspettava.
Bisogna sottolineare che le recenti difficoltà europee con la moneta unica hanno in qualche modo reso giustizia agli "euroscettici", ossia a tutti coloro, poitici ed economisti me compreso, che avevano dubbi sul progetto dell'euro fin dall'inizio.
Qual era il motivo di tali perplessità? Gli economisti, come il sottoscritto e Barry Eichengreen, avevano esaminato la valuta proposta applicando la teoria dell'area valutaria ottimale, secondo la quale in sostanza l'adozione di una moneta comune da parte di due o più paesi implica sia costi che benefici.
Il beneficio è la riduzione degli oneri connessi allo svolgimento delle attività economiche. Il costo è la maggiore difficoltà di riallineamento dei prezzi dopo gli "shock asimmetrici", ossia i boom e le crisi che colpiscono alcuni paesi dell'Unione monetaria, ma non altri. Si riduce in presenza di un'elevata mobilità del lavoro, fra le regioni in fase di boom e di crisi, e quando esiste l'integrazione fiscale (un punto sollevato da Peter Kenen, mio collega a Princeton), grazie alla quale una crisi locale può essere parzialmente assorbita tramite prelievi fiscali minori e maggiori trasferimenti da parte di un governo centrale.
Nei primi anni 90 alcuni economisti americani hanno valutato l'euro proposto facendo un confronto tra l'Europa e gli Stati Uniti, che rappresentano il miglior esempio disponibile di area valutaria funzionante di dimensioni continentali. L'Europa è risultata molto meno adatta degli Stati Uniti, data la mobilità del lavoro decisamente inferiore e l'assenza quasi totale di integrazione fiscale. I sostenitori dell'euro si aspettavano guadagni commerciali consistenti, ma i vantaggi effettivi sono stati molto più modesti, deludendo le speranze riposte da alcuni nella moneta unica. La realtà ha dato ragione agli euroscettici del mondo accademico.