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Europa e mercati. L'Oriente supera l'Occidente a destra e in contromano

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2011 alle ore 07:51.

Le crisi europee rispettano le feste. Dopo tutto, è la vecchia Europa. La crisi acuta del mercato obbligazionario si è fermata a metà dicembre, per poi ripartire la settimana scorsa. Il periodo festivo avrebbe potuto essere una pausa di intensa riflessione, invece non si è fatto altro che ignorare il problema. Al vertice di dicembre, l'Unione europea ha perso un'occasione storica per domare la crisi: faremo tutto ciò che serve, hanno giurato i rappresentanti dei vari stati membri, e se ne sono andati a casa.

Nessuno ci ha creduto, ma il panico non si è scatenato fino alla settimana scorsa, quando i rendimenti obbligazionari sono aumentati e l'euro è crollato. Di tutti i fattori che misurano il panico sul mercato, forse quello più rivelatore è stato il rialzo dell'indice Markit iTraxx SovX Western Europe, un paniere di credit default swap sovrani dell'Eurozona, salito per la prima volta sopra il livello di un indice analogo relativo all'Europa centrale e orientale. Vale la pena di soffermarsi a considerare la valenza di questa svolta: l'Europa occidentale attualmente viene considerata più a rischio dell'Europa centro-orientale.

Sarebbe sbagliato pensare che la crisi coinvolge paesi minori alla periferia remota dell'Eurozona: in realtà, riguarda anche il cuore dell'area euro e si sta diffondendo rapidamente. La settimana scorsa il Belgio è comparso sugli schermi radar degli investitori internazionali, quando i CDS sovrani hanno toccato nuovi record in seguito all'ennesimo tentativo fallito di formare un governo.

Quest'anno il debito pubblico del Belgio supererà il 100% del prodotto interno lordo. Inoltre, nessun altro paese europeo ha un'esposizione così elevata al debito irlandese, in rapporto al Pil. Il Belgio ha estremo bisogno di un governo forte, in grado di prendere decisioni impopolari per risanare il settore bancario, provvedere alla riforma del sistema previdenziale e riportare le finanze pubbliche su una traiettoria sostenibile a lungo termine. Mentre i leader politici fiamminghi e valloni continuano a combattere le loro piccole battaglie, il Belgio sta perdendo la guerra per la conquista della stabilità economica di lungo periodo.

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Anche i rendimenti sui titoli decennali italiani hanno evidenziato un incremento costante nell'ultimo mese. In Italia il pericolo, sempre dal punto di vista degli investitori internazionali, è l'instabilità politica, per certi versi simile a quella belga. Interrogato su un'ipotetica rottura dell'unione monetaria, un intellettuale italiano una volta ha dichiarato di ritenere più probabile una spaccatura dell'Italia che non dell'Eurozona. Non credo che fosse solo una battuta.

Come il Belgio, l'Italia è un paese economicamente e politicamente diviso, con un rapporto debito-PIL analogo. Per fortuna, il settore bancario italiano è più solido, anche se caratterizzato da una produttività modesta. Non sarebbe del tutto irrealistico ipotizzare che il mondo politico italiano post-berlusconiano si riveli ancora più caotico. In tal caso, il paese potrebbe trovarsi a gestire divisioni simili a quelle evidenti in Belgio, con spinte verso la devoluzione estrema e un governo centrale debole.

Non si possono davvero biasimare gli investitori se considerano un governo centrale funzionante come un requisito di solvibilità essenziale, per paesi con un rapporto debito-Pil pari al 100%. La mancanza di leadership politica a livello nazionale ed europeo è la causa della diffusione della crisi.

La manifestazione più eclatante di tale mancanza di leadership è la convinzione condivisa, a livello della Ue, che la situazione finirà per autocorreggersi e che serve soltanto una robusta garanzia di liquidità. È un tragico errore. Il clima negativo attuale si autoalimenta a causa dell'interazione di due fattori: la crisi di solvibilità del settore pubblico e di quello privato e la crisi di competitività. Per affrontare la scarsa competitività, l'Europa meridionale, Italia inclusa, avrebbe bisogno di una deflazione conclamata. In alcuni casi, prezzi e salari dovrebbero subire una riduzione del 30 per cento, per riallinearsi con i livelli dell'Eurozona settentrionale. Tuttavia, la deflazione aumenterebbe il valore reale del debito. Sembra ragionevole pensare che i paesi periferici riescano ad affrontare il problema della competitività oppure quello del debito, ma di sicuro non tutti e due insieme, senza il ricorso alla svalutazione o all'insolvenza.

Il problema della competitività forse non sarà il più urgente dei due, ma potrebbe essere il più importante. Gli squilibri interni continuano ad ampliarsi e lo stesso si può dire per il divario di competitività. La Spagna in piena depressione continua a generare un'inflazione più elevata della Germania in pieno boom: i dati di dicembre indicano un tasso d'inflazione pari al 2,9% in Spagna e all'1,71% in Germania.

Più questa duplice crisi si trascina, più le misure necessarie per sconfiggerla saranno drastiche e di dubbia realizzabilità. A mio avviso, la crisi non si risolve senza un'europeizzazione del settore bancario, regole comuni per i mercati del lavoro e dei beni in grado di evitare la vischiosità dell'inflazione nell'Europa meridionale, e un minimo di unione fiscale con un unico bond europeo. E non è un elenco esaustivo.

L'establishment politico europeo ritiene che una risposta così radicale sia ingiustificata, oltre che politicamente irrealizzabile. La prima valutazione è errata e, smaltito il clima natalizio, il mondo scoprirà che la seconda potrebbe invece essere corretta. (Traduzione di Francesca Marchei)

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