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La fiammata del petrolio e i rischi per la ripresa

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Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2011 alle ore 09:30.

di Riccardo Sorrentino

Petrolio, petrolio, petrolio. Fin dove arriverà? L'unica domanda da porsi, sulla situazione economica globale, è ormai questa, che molte madri e padri di famiglia si stanno già facendo.

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È giusto così. Non c'è stata una recessione americana - con tutte le sue conseguenze sul resto del mondo - che non sia stata preceduta da un forte, e rapido, rialzo del petrolio, almeno dalla Seconda guerra mondiale. Il lavoro compiuto da James Hamilton, della California University, dal 1983 a oggi resta insuperato. Con il Brent a 111 dollari e il Wti a 97, il rischio ora si ripresenta. Per gli Stati Uniti come per il resto del mondo.

«Il rialzo non potrebbe avvenire in un momento peggiore», spiega allora in un'analisi il team di economisti di Hsbc guidato da Stephen King. Il rally, che gli eventi nordafricani hanno solo accelerato, è legato al desiderio degli investitori di fuggire la "follia monetaria" della Fed - così la chiama King - trasformando i dollari in beni reali come le materie prime, e al fatto che la crescita, spostandosi nei paesi emergenti - meno efficienti sul piano energetico - fa oggi un uso più intenso di petrolio.

La domanda è quindi elevata e, nei rialzi, conta quanto e più dell'offerta. In fondo - nota King - tra l'80 e l'88 due paesi grandi produttori di greggio, l'Iran e l'Iraq, erano in guerra senza che le quotazioni ne risentissero. Oggi invece, con tassi ultraespansivi e il forte consumo di energia negli emergenti, la corsa delle quotazioni del petrolio potrebbe essere molto rapida.
Un'incognita importante è il comportamento delle famiglie. Di fronte a un rialzo considerato temporaneo - questa è la teoria del reddito permanente di Milton Friedman - potrebbero mantenere i consumi invariati o quasi, erodendo i risparmi. Questa volta, però, i consumatori sono spesso indebitati, e potrebbero trovare difficile mantener fermo il tenore di vita. Nel 2008, sorprendendo gli investitori, riuscirono persino a ridurre le spese per l'energia...
La cosa più delicata, in ogni caso, è valutare con precisione il rischio di un forte rialzo, senza dare troppo corpo ai timori. «La preoccupazione, naturalmente, è che il grande cambiamento geopolitico a cui stiamo assistendo non si è fermato con la Tunisia e poi non si è fermato con l'Egitto. Così potrebbe non essere una buona idea pensare che tutto si fermerà con la Libia», spiega Hamilton. Allo stato si deve però paragonare l'attuale minicrisi petrolifera - aggiunge - a quella vissuta nel 2002-2003, quando si sommarono la guerra in Iraq e gli scioperi in Venezuela: una flessione dell'estrazione mondiale di greggio del 4 per cento.

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Tags Correlati: Bce | California University | Credito alle imprese | Fed | Iraq | James Hamilton | Michael Gapen | Milton Friedman | Stephen King |

 

Poca roba, sembra. Un petrolio a 130 ruba alla crescita Usa 0,4 punti percentuali, e quella Uem, secondo i calcoli Bce e partendo dagli attuali 111 dollari, meno di 0,2 punti il primo anno e circa 0,35 nel secondo.

Per avere danni rilevanti sul Pil occorre che il petrolio - nota King - salga di almeno il 100% in termini reali. Per ora siamo lontani: occorrerebbe tornare ai livelli del 2008, a 150 dollari, per temere un deragliamento della ripresa. Conta però anche la velocità dei prezzi - sottolinea Michael Gapen di Barclays - forse persino più del loro livello. Se la crescita trimestrale annualizzata dei prezzi al consumo spinti dal greggio superasse il 9%, spiega, allora la ripresa Usa (che proprio ieri si è mostrata più lenta di quanto si pensasse, fermandosi al 2,8% nel quarto trimestre rispetto al 3,2% della stima precedente) potrebbe davvero frenare bruscamente.

La situazione è tale che l'inflazione è passata in secondo piano. Eppure un rialzo del greggio crea, come primo effetto, proprio una risistemazione e un aumento dei prezzi. Le banche centrali sono già molto attente - la Bce di più, la Fed un po' meno anche se comincia a inquietarsi - agli effetti indiretti (i second round effects) del caropetrolio, soprattutto sulle rivendicazioni salariali. La cosa più probabile, oggi che i tassi possono solo salire, è allora quella di veder aumentare il costo del credito proprio mentre salgono i costi di produzione. Molti investimenti potrebbero essere abbandonati.

Il risultato potrebbe essere un calo incisivo della domanda aggregata e insieme dell'offerta, che questa volta non può trovare - almeno nei paesi avanzati - un cuscinetto nelle politiche fiscali, costrette all'austerità. Qualcuno - come King - ricorda cosa avvenne dopo l'invasione del Kuwait: una banca centrale non poté che alzare i tassi, e sbagliò. Il risultato fu «stagnazione, deflazione, basse performance economiche», il ventennio perduto del Giappone.

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