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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2012 alle ore 14:10.
L'ultima modifica è del 29 gennaio 2012 alle ore 14:38.

La lezione della storia è impietosa: dall'impero romano a Gheddafi, i regimi e le civiltà finiscono in repentini tracolli più che graduali declini. Ed è quello che rischiano Stati Uniti e Occidente dopo aver perso le "armi vincenti" – dalla concorrenza all'etica del lavoro – che ne hanno garantito la supremazia per secoli, a vantaggio di altre società, soprattutto asiatiche.

Forse è ancora possibile eliminare i virus e rilanciare il nostro sistema: ma bisogna agire subito.
L'Occidente ha prevalso sul resto del mondo, a partire dal XVI secolo, grazie a una serie di innovazioni istituzionali che si sono rivelate altrettante armi vincenti: la concorrenza; la rivoluzione scientifica; lo stato di diritto e il governo rappresentativo; la medicina moderna; la società dei consumi; l'etica del lavoro.
All'inizio del XX secolo, una decina di imperi – Stati Uniti compresi – rappresentava il 58% della superficie e della popolazione del pianeta, e ben il 74% dell'economia mondiale. Poi, però, il quadro è rapidamente cambiato. A cominciare dal Giappone, numerose società si sono appropriate di queste armi vincenti. Chi è oggi il vero depositario dell'etica del lavoro? Il sudcoreano medio lavora circa il 39% di ore in più a settimana rispetto all'americano medio. L'anno scolastico in Corea del Sud è di 220 giorni, rispetto ai 180 degli Stati Uniti. Basta frequentare un po' le principali Università americane per accorgersi che gli studenti migliori, quelli che studiano di più, sono gli asiatici e gli asiatico-americani.

Quanto alla società dei consumi, 26 dei 30 più grandi centri commerciali del mondo si trovano oggi nei Paesi emergenti, soprattutto in Asia. Negli Usa se ne contano solo tre: e oggi sono posti desolati e semivuoti, visto che gli americani faticano a ripagare i debiti e hanno le carte di credito scadute. Passando all'assistenza sanitaria, la spesa americana è più alta di quella di qualunque altro Paese. In percentuale sul Pil, gli Stati Uniti spendono il doppio del Giappone per la sanità e più del triplo della Cina. Eppure l'aspettativa di vita in America è salita da 70 a 78 anni negli ultimi 50 anni, rispetto alle impennate del Giappone (da 68 a 83 anni) e della Cina (da 43 a 73 anni).
Se poi parliamo dello stato di diritto, il World Economic Forum ci dà un quadro desolatamente chiaro. In ben 15 dei 16 indicatori relativi alla tutela della proprietà intellettuale e alla governance d'impresa, gli Stati Uniti sono più arretrati di Hong Kong e si piazzano al primo posto solo in un settore: la protezione degli investitori. Sotto ogni altro aspetto, la loro reputazione è pessima.

Figurano all'86° posto nel mondo per i costi imposti alle imprese dalla criminalità organizzata, al 50° per la fiducia dell'opinione pubblica nell'etica degli uomini politici, al 42° per le varie forme di corruzione e al 40° per l'affidabilità degli audit e la credibilità dei bilanci. Quanto alla scienza, gli ultimi dati sulla competenza matematica rivelano che il divario fra gli studenti più avanzati al mondo – quelli di Shanghai e Singapore – e i loro coetanei americani è oggi più grande del gap fra gli adolescenti americani e quelli albanesi e tunisini.
Il compianto Steve Jobs ha convinto gli americani che il futuro sarebbe stato «progettato dalla Apple in California e assemblato in Cina». Ma le statistiche dell'Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale mostrano che già oggi il Giappone licenzia più brevetti degli Usa, che la Corea del Sud ha scavalcato la Germania, piazzandosi al terzo posto nel 2005, e che anche i cinesi stanno per superare i tedeschi.

E veniamo infine alla concorrenza, l'arma vincente iniziale che ha avviato l'Europa frammentata verso un destino completamente diverso da quello della monolitica Cina imperiale. Il World Economic Forum realizza ogni anno, dal 1979, un'ampia indagine sulla competitività. Da quando è stata adottata l'attuale metodologia, nel 2004, il punteggio medio di competitività degli Usa è sceso da 5,82 a 5,43, registrando uno dei cali più rapidi tra i Paesi avanzati, mentre la Cina, nel frattempo, saliva dal 4,29 al 4,90. E non si tratta soltanto di una perdita di competitività sul fronte esterno. La cosa forse più preoccupante è la caduta di competitività interna, oggi che la mobilità sociale del dopoguerra ha ceduto il passo a una straordinaria polarizzazione sociale. Non c'è bisogno di essere i radicali di Occupy Wall Street per vedere che l'élite americana dei super ricchi – l'1% che si appropria del 20% del reddito – è ormai pericolosamente separata dal resto della società e soprattutto dalle classi inferiori, agli ultimi posti nella scala di distribuzione della ricchezza.

Quello che dobbiamo fare è eliminare i virus che si sono insinuati nel nostro sistema: le posizioni di monopolio che ostacolano la concorrenza e paralizzano tutto, dalle banche all'istruzione pubblica; la pseudoscienza politicamente corretta che distoglie gli studenti dalla scienza vera e rigorosa; i lobbisti che sovvertono le leggi dello Stato in nome degli interessi particolari che rappresentano – per non parlare del sistema follemente disfunzionale di assistenza sanitaria, del sovraindebitamento privato e del nostro allarmante passaggio dall'etica del lavoro a quella dei sussidi di disoccupazione. Poi dobbiamo introdurre le innovazioni di maggior successo già sperimentate da altri paesi – dalla Finlandia alla Nuova Zelanda, dalla Danimarca a Hong Kong, da Singapore alla Svezia. E, infine, dobbiamo "resettare" e rilanciare il nostro sistema.

Mi rifiuto di accettare che la civiltà occidentale sia una sorta di vecchia versione di Microsoft dos, destinata a girare sempre più lentamente fino a bloccarsi del tutto. Ma la lezione della Storia è chiara. Guai agli elettori e anche agli uomini politici che oseranno rinviare il grande rilancio.

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