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Questo articolo è stato pubblicato il 29 febbraio 2012 alle ore 09:15.
L'ultima modifica è del 29 febbraio 2012 alle ore 09:17.

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La cultura è un'industria. Concetto facile a dirsi, ma difficile da mettere a fuoco. Perché intanto bisogna intendersi sul perimetro da dare alla definizione. Se si sposa un'interpretazione allargata – in cui comprendere dal cinema alla musica, dall'architettura al design, dai musei alle biblioteche, dalle arti visive all'enogastronomia – allora si può dire che il settore nel 2010 ha determinato un valore aggiunto di 68 miliardi di euro e impiegato 1,4 milioni di persone.

Cifre di tutto rispetto, perché corrispondono – come spiega lo studio di Unioncamere, in collaborazione con la fondazione Symbola e l'Istituto Tagliacarne, presentato l'estate scorsa – al 4,9% del valore aggiunto prodotto dall'intera economia ed è un settore in cui trova lavoro il 5,7% degli occupati. Ma soprattutto, l'industria culturale continua a crescere, perché nel triennio 2007-2010 è riuscita ad agguantare un +3% (contro lo 0,3% complessivo) e ha assunto 13mila persone (0,9%), in controtendenza rispetto al resto dell'economia, costretta a una flessione di circa il 2 per cento.

Nonostante queste performance in Europa rimaniamo fanalino di coda. Basta guardare la classifica Eurostat degli impiegati nel settore culturale per rendersi conto che il Belpaese è al di sotto della media Ue. E anche a voler tener conto dei diversi parametri con cui spesso vengono confenzionate le ricerche, il risultato trova riscontro in altri dati. Per esempio, nel fatto che – ed è sempre lo studio Unioncamere a dircelo – nel grande perimetro della cultura non tutti gli ambiti si muovono all'unisono. Se cresce il peso economico delle industrie culturali e creative (cinema, editoria, architettura, ecc.) e delle arti visive, arretra quello più propriamente legato al patrimonio culturale (musei e monumenti), dove diminuisce il valore aggiunto (-0,6% nel periodo 2007-2010) e calano gli addetti (-8,7%).
Fatto che trova una giustificazione (seppure non in un rapporto di causa-effetto) nella fotografia della spesa pubblica in cultura scattata dalla fondazione Rosselli attraverso il sistema dei conti pubblici territoriali, sistema che a sua volta definisce confini ancora diversi di "cultura", ma in cui sicuramente trovano posto la tutela e la valorizzazione del patrimonio. Ebbene, nel 2000 i sovvenzionamenti alla cultura rappresentavano il 2,10% dell'intera spesa pubblica, scesi nel 2008 (ultimo anno rilevato) all'1,03 per cento.

Eppure, a guardare l'incidenza della spesa culturale sul Pil, l'Italia è allineata agli altri Paesi: secondo le elaborazioni fatte da Intesa Sanpaolo e Ask Bocconi su dati Eurostat 2009 e presentate in una ricerca dello scorso ottobre, il rapporto è dello 0,4 per cento. Solo in Spagna si sale allo 0,7 per cento.

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